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 2023  novembre 30 Giovedì calendario

Intervista a Giuliano Amato

“Il 7 ottobre del 2023 è una data terribile per l’umanità perché l’odio feroce di Hamas, refrattario a qualsiasi possibile freno, hamanifestato una carica anche simbolica che non hanno le azioni di violenza consumate altrove. Ha voluto dire: noi vogliamo distruggere gli ebrei, vogliamo annientarli qui, non c’è spazio per loro».
Protagonista e testimone di un lungo tratto della storia d’Italia, Giuliano Amato interviene sulla guerra in Medio Oriente con lo sguardo rivolto anche al passato. Nella veste di presidente del Consiglio, ebbe occasione di incontrare Yitzhak Rabin e Yasser Arafat nel 1993, a ridosso della ratifica degli accordi di Oslo. «Fu il momento più alto del processo di pace tra i due popoli. E lì dobbiamo tornare, anche se la strada è molto difficile».
Il sabato nero ha risvegliato l’incubo con cui convive Israele fin dalla sua nascita: l’incubo della sua cancellazione.
«Personalmente mi ha provocato una totale repulsione. Io sono sempre stato convinto che quando nacque lo Stato di Israele fu fatta giustizia di una storia plurimillenaria: quella era la Terra promessa dai tempi della Bibbia, la terra a cui questo popolo poté tornare dopo il lungo esilio in Egitto. Questa è la prima ragione per cui Israele ha comunque ragione davanti a un’aggressione che vuole negare il suo diritto di esistere. E ha il diritto-dovere di reagire eliminando Hamas. La mia fermezza nasce anche da una semplice constatazione: Israele è la mia civiltà. Israele è me che sono lì. Tutta la storia delle persecuzioni ebraiche dimostra quanto della nostra civiltà la cultura ebraica sia parte e quanto abbia contribuito a farla crescere. Quello che ora non possiamo non chiederci, riflettendo sul sabato nero, è come ci siamo arrivati».
Hamas è un’organizzazione terroristica che predica la sottomissione del mondo a una versione fondamentalista dell’Islam.
«Ricordo che quando nacque nel 1987 rimasi impressionato da un dato: nella sua carta fondativa era scritto a chiare lettere che voleva piantare la bandiera di Allah su ogni centimetro quadrato della Palestina, quindi il suo scopo era quello di eliminare gli ebrei dalla regione. Nel corso degli anni, a contatto con una popolazione più ampia di cui assorbiva sentimenti diversi, in modo ondivago e confuso accanto alle azioni terroristiche aveva cominciato a mostrare un’anima meno radicale in una sua ala politica. A partire dal 2006 vinse diverse elezioni, e i suoi esponenti dichiararono che avrebbero riconosciuto Israele se Israele avesse accettato uno Stato dei palestinesi con tutti i loro diritti. Ma Hamas non ha mai smesso di coltivare il terrorismo. Certo è che il 7 ottobre l’ha riportata all’anno zero, anzi a come non era mai stata: un’opera così efferata non l’aveva mai commessa. Per questo non posso non chiedermi: come si è arrivati a questo? Che cosa abbiamo fatto o non abbiamo fatto?».
Chiama in causa le classi politiche occidentali?
«Sì, tutti noi, e in primo luogo chi ha governato Israele negli ultimi quindici anni. Qui non posso non rimarcare la straordinaria differenza tra un premier come Netanyahu e la generazione precedente dei Shimon Peres e dei Rabin: questi leader credevano nell’interazione e nell’integrazione dei palestinesi, mai sfiorati dall’idea che la loro presenza dovesse essere cancellata dalla Terra promessa. Poco prima della ratifica degli accordi di Oslo, che posero le premesse mai realizzate del riconoscimento dello Stato palestinese, ebbi modo di parlare a lungo con Rabin. Allora ero presidente del Consiglio e la nostra colazione alla Farnesina come da cerimoniale sarebbe dovuta durare un’ora e mezza. Alle quattro del pomeriggio, noi due da soli eravamo ancora a tavola a parlare. Di cosa? Del futuro, delle idee che lo animavano per la convivenza dei due Stati, di una Gerusalemme condivisa, della volontà che i palestinesi potessero beneficiare della superiorità civile che Israele rappresentava in quella regione».
Parlò di questo anche con Arafat?
«Più volte. Lui aveva il problema del diritto al ritorno dei palestinesi.
Ricordo una conversazione a Palazzo Chigi in cui gli dissi: “Tu hai accettato che vi sia lo Stato sovrano di Israele su questa terra” – usai proprio queste parole formali. Lui assentì: “Questo io non posso non accettarlo”. “E allora è evidente”, proseguii, “che il diritto al ritorno dei palestinesi non potrà non essere concordato con lo Stato che ha la sovranità su quel territorio”.
Taceva, ma non aveva argomenti da oppormi. Gli accordi di Oslo furono il momento più alto dell’incontro tra questi uomini di buona volontà, anche se Arafat non era certo privo di ambiguità. Ma la storia spingeva in quella direzione. Tutto ciò è venuto meno con il governo di BenjaminNetanyahu».
Quali critiche muove all’attuale primo ministro israeliano?
«Nel corso di questi anni sono state ridotte le possibilità concrete perché nascesse lo Stato palestinese, mangiando via via con un numero crescente di insediamenti in Cisgiordania il territorio che gli accordi di Oslo avevano destinato ai palestinesi. Ho seguito questa espansione grazie al lavoro dell’ebreo Henry Siegman, del cui gruppo americano facevo parte: Henry faceva disegnare sulle mappe il progressivo addensarsi degli insediamenti, un ostacolo crescente alla realizzazione degli accordi di Oslo. L’altro elemento di frattura era l’atteggiamento punitivo dei coloni e dei militari israeliani nei confronti della popolazione palestinese. E in tutto questo Netanyahu nulla ha fatto per impedire che Hamas venisse finanziata dal Qatar, con l’effetto di indebolire l’Autorità Nazionale Palestinese. È evidente che Netanyahu non ha mai letto Cavour o, se l’ha letto, ne ha tratto la lezione contraria».
A quale insegnamento di Cavour si riferisce?
«Cavour ci ha insegnato – e lo insegnava ai conservatori sabaudi che chi non fa i cambiamenti opportuni quando è il momento di farli scatena la reazione più estrema e violenta. Per evitare la violenza oppositrice, occorre far camminare le istanze giuste che si ha la responsabilità di governare.
Netanyahu ha fatto la scelta opposta».
Questa sua analisi è simile a quella fatta dal segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, che è stato accusato da Israele e da diversi intellettuali di giustificazionismo. Rimarcando gli errori del governo israeliano non c’è il rischio di sminuire le colpe diHamas?
«Ma non scherziamo! A parte che la fermezza etica di Guterres non è cosa che può capire chi non ce l’ha nella coscienza, Israele continua a essere per me quello che ho detto prima. E ripeto qui ciò che Bernard-Henri Lévy ha scritto qualche giorno fa suRepubblica: io sto con Israele e non potrebbe essere diversamente. Ha ragione nel chiedersi: ma chi sta oggi dalla parte di Hamas? C’è l’Iran, massacratore dei diritti e delle libertà femminili. Ci sono le varie frange jihadiste, che operano dallo Yemen al Sudan. Ci sono gli hezbollah. E c’è il compiaciuto assenso di Putin, che oggi vive ne segno del conservatorismo più reazionario e del cinismo della guerra. Ma, diavolo, come si può essere equidistanti?».
Eppure nelle piazze di sinistra compaiono le bandiere di Hamas.
«Sbagliano! Come ho trovato incomprensibile la presenza di quei vessilli nelle straordinarie manifestazioni popolari nate spontanee dopo l’assassinio della povera Giulia Cecchettin. Ma come è possibile? Io sfilo contro la violenza sulle donne e porto con me il simbolo di chi ha commesso pochi giorni prima i crimini più efferati sui corpi delle donne israeliane?
Roba di una disumanità e di una doppiezza che francamente è difficile immaginare».
Lei prima faceva riferimento al diritto-dovere di reagire da parte di Israele. Come trovare un equilibrio tra la necessità di difendersi e il rispetto del diritto internazionale?
«Uno dei più autorevoli commentatori delNew York Times,Nicholas Kristof, si è domandato: si possono uccidere tanti bambini palestinesi perché sono stati uccisi dei bambini israeliani? La sua risposta è no. Ribadisco: non si può contestare a Israele il dovere di distruggere Hamas. Il problema è come farlo in una striscia di terra dove è provata la commistione tra scuole, ospedali e i rifugi dei terroristi. Condivido quel che scrive Lévy: non s’è mai visto in una guerra che l’esercito che si accinge a sparare prima dell’azione militare inviti i civili a spostarsi. Però è un dato di fatto che si spara lo stesso, sapendo che i civili non si sono scansati. Io faccio sommessamente una domanda, che parte da una considerazione.
Forse i bombardamenti che precedono l’arrivo delle truppe israeliane servono a tutelare la vita dei soldati. Sulla spinta di un dovere etico, non si potrebbero adottare tecniche più arrischiate per i militari e meno pericolose per i bambini che vivono lì? Ma la mia è solo una domanda, lascio agli esperti militari la risposta».
Pensando al dopoguerra, quale soluzione è possibile?
«Sono convinto che non nella testa di Netanyahu ma di qualcuno dei suoi ministri possa esserci l’idea che la conquista di Gaza sia un legittimo obiettivo di Israele e quindi fa bene la comunità internazionale, a cominciare dal presidente Biden e dal bravissimo segretario di Stato Blinken, a sostenere che nella Striscia non potrà esserci un governo neppure transitorio di Israele.
Qualcun altro la deve guidare. Ma la difficoltà è proprio qui».
Può tornare a governare l’Anp di Abu Mazen?
«Tenderei a escluderlo, ormai Abu Mazen è il contrario del nome che porta. Incarna l’autorità palestinese ma di autorità non ne ha più alcuna per le ragioni a cui accennavo sopra e anche per la connivenza con la corruzione in cui è caduto il suo governo. Ritengo azzardato qualsiasi paragone di Marwan Barghouti con Nelson Mandela, che considero il più grande personaggio del Novecento, ma penso che la soluzione in un caso così estremo non possa che essere una figura del genere: un leader palestinese dotato di un forte credito e anche circondato dall’affetto del suo popolo. Barghouti potrebbe guidare il processo che porta verso la costituzione dello Stato palestinese».
E il leader israeliano più adatto a questo processo?
«Non lo so, ma non escludo che la risposta arrivi dalla reazione al male che Israele ha subito. Quando un popolo vive sulla sua pelle un male così estremo come quello inferto da Hamas – solo Israele può misurarne la portata, tutti noi l’abbiamo vissuto dall’esterno – è portato alla riflessione cavourriana: io non voglio che questo male accada mai più. E allora devo tagliare alle radici le ragioni che possono portare alla crescita di una pianta velenosa come è stata la pianta di Hamas. La convivenza tra israeliani e palestinesi metterebbe fuori l’odio su cui si fonda Hamas».
C’è spazio nel dopoguerra per una missione Onu sul modello Unifil in Libano?
«Qui le condizioni sono più difficili.
Mi ricordo bene quella iniziativa perché facevo parte del governo guidato da Prodi che ebbe la buona idea di valorizzare l’Italia nella missione delle Nazioni Unite. Anche ora servirebbe un intervento di quella qualità. La più forte delle autorità palestinesi potrebbe trovarsi in difficoltà nel riportare ordine in una situazione caotica in cui non c’è solo Hamas ma anche altri gruppi jihadisti. Ma deve esserci appunto la qualità: non soldati di paesi malandati, disponibili soprattutto a rimediare qualche dollaro in più».
La preoccupano le ripetute manifestazioni di antisemitismo nel mondo, mentre s’affievolisce la memoria della Shoah perché vengono a mancare gli ultimi testimoni?
«Oltre ai bambini che muoiono, questo è il prezzo altissimo che stiamo pagando. Le immagini dei morti a Gaza, salvo i giorni di tregua, nel rozzo semplicismo provocano ondate di ostilità. E nei confronti di chi? Ma degli ebrei, purtroppo!
Quello è un sentimento odioso che cova nel fondo di molte subculture dei nostri paesi ed è come si fosse rotta una diga e ora veniamo sommersi dall’acqua fangosa che non si ferma. Sono convinto che una soluzione virtuosa come la convivenza delle varie religioni a Gerusalemme possa sopire queste pulsioni. Ed è anche sapendo questo che Israele dovrà trovare la forza di raggiungerla».
Prima lei faceva riferimento all’ambiguità di Arafat. C’è un episodio di cui lei è testimone che conferma questo tratto del leader dell’Olp: la vicenda dell’Achille Lauro, la nave italiana sequestrata nell’ottobre del 1985 da un gruppo di terroristi palestinesi.
«Sì, in quel caso Craxi fu ingannatodal leader dell’Olp: Bettino aveva chiesto un mediatore e Arafat gli mise a disposizione Abu Abbas, che in realtà era il regista dell’operazione, nata sì con un’altra intenzione ma sfociata nel sequestro e nell’assassinio dell’ebreo americano Leon Klinghoffer. Noi però l’avremmo scoperto più tardi».
Una volta arrivati in Italia su un aereo egiziano i quattro artefici del sequestro furono consegnati alla giustizia. Mentre restò libero Abu Abbas, poi volato da Roma a Belgrado su un aereo jugoslavo. Gli americani vi hanno sempre rimproverato di averlo lasciato scappare.
«Ero sottosegretario alla presidenza del Consiglio e seguii personalmente la vicenda, dopo il confronto da brivido a Sigonella tra Italia e Stati Uniti. Ero a Ciampino quando nella notte tra l’11 e il 12 ottobre verso mezzanotte atterrò il volo egiziano con Abu Abbas. Stavo in una saletta con i nostri diplomatici Renato Ruggiero e Antonio Badini e a un tratto vidi avvicinarsi alle vetrate dell’aerostazione un aereo americano con il muso puntato verso di noi. Noi tre ci accucciammo sotto le poltroncine, sicuri che ci volessero spiare. Alle 5 del mattino l’ambasciatore americano Maxwell Rabb bussò alla porta del ministro della Giustizia Martinazzoli con le prove – così sosteneva lui – della colpevolezza di Abbas, accusato di pirateria, cattura degli ostaggi e associazione a delinquere. Ne chiedeva l’arresto provvisorio ai fini dell’estradizione».
Perché lo lasciaste andare?
«Non vi erano prove sufficienti.
Questo fu il giudizio dei magistrati interpellati da Martinazzoli. A quel punto non potevamo trattenerlo».
Rabb annunciò l’imminente arrivo di altre prove, ma secondo la ricostruzione americana non gli deste il tempo.
«Io ricordo che le prove sarebbero arrivate non qualche ora più tardi, ma in un periodo successivo. E infatti Abu Abbas sarebbe stato processato e condannato, e quindi alla fine abbiamo dato ragione agli americani. Ma in quel passaggio preciso agiva la convinzione che Abu Abbas fosse un mediatore. E nel clima molto pesante nato a Sigonella, la pressione statunitense ci appariva un sopruso».
È sbagliato ipotizzare che voi non vedevate l’ora di liberarvene anche per non rompere con Arafat?
«Non so se nella testa di Craxi agisse questo vincolo, e forse proprio a questo si riferisce Kissinger con la sua frase “We had to get mad, you had to set him free”, noi fummo costretti arrabbiarci, voi foste costretti a liberarlo. Ma sono convinto della nostra buona fede. Non c’è dubbio che la politica estera di Craxi fosse vicina all’Olp e in più momenti abbiamo dovuto incontrare i leader israeliani per rassicurarli. Ricordo una cena all’Hilton con Shimon Peres per spiegargli che il governo italiano si stava adoperando con Arafat nell’interesse di entrambi i popoli. E devo dire che Peres accoglieva le nostre posizioni senza difficoltà.
Questa era l’Israele di allora.
Con gli americani il litigio si sarebbe risolto rapidamente. “Dear Bettino”, così cominciava la lettera scritta da Reagan dopo la vicenda di Abu Abbas. Il caso era chiuso