2 ottobre 2023
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Biografia di Ruggero Raimondi
Ruggero Raimondi, nato a Bologna il 3 ottobre 1941 (82 anni). Basso-baritono. Voce potente. Grande presenza scenica • «Un mostro sacro» (Alberto Arbasino) • «Assunto nell’olimpo degli interpreti verdiani per eccellenza» (Marco Andreetti, storico critico del Corriere) • «Uno dei migliori bassi contemporanei, in particolare nel repertorio ottocentesco italiano e in quello mozartiano» (Treccani) • Debuttò nel 1964 al Festival di Spoleto, nel ruolo di Colline nella Bohème di Puccini. Per innumerevoli volte è stato protagonista del Don Giovanni di Mozart, ruolo che gli è particolarmente congeniale. Grandissimo successo con il Boris Godunov di M. P. Musorgskij, alla Fenice di Venezia, nella stagione 1972-73, poi diventato suo cavallo di battaglia. Partecipò alla leggendaria edizione del Simon Boccanegra messa in scena alla Scala nel 1973, con regia di Strehler e direzione d’orchestra di Claudio Abbado. Lavorò con Luca Ronconi per un Faust andato in scena a Bologna. Ha lavorato, tra gli altri, anche con Herbert von Karajan, Carlo Maria Giulini, Zubin Mehta, Riccardo Muti e Riccardo Chailly • Per descrivere il suo modo di cantare, la Stampa ha scritto: «Voce bella e duttile, dizione perfetta, fraseggio elegante» (Sta 10/4/1988). Franco Fussi, foniatra dei divi del canto, colui che corre in soccorso delle loro corde vocali quando qualcosa non va, l’ha descritta così: «Una voce anfibia, a suo agio sia nel registro di baritono che in quello di basso, nei ruoli comici come quelli drammatici, nell’Ottocento rossiniano e in quello russo di Musorgskij. Ma la sua longevità artistica è dovuta anche da una conoscenza ferrea della tecnica, che gli ha permesso di elaborare strategie di conservazione» • Oggi di lui si parla pochissimo. «È l’antidivo per eccellenza: autorevole e aristocratico in scena, è timido e riservato nella vita» (Sta 30/3/1995). Molti se lo ricordano per il film Don Giovanni, girato da Joseph Losey nel 1979. «Gli occhi, nerissimi, scolpiti nel marmo pallido del volto. Le labbra, immobili, incise nel ghiaccio e la cornice trionfante dei capelli, intagliata nell’ebano» (Guido Barbieri). Lui commenta: «Non mi disturba affatto che la mia faccia sia legata a quella immagine. Anzi, mi ricorda che allora ero un Don Giovanni giovane e seducente e che oggi, invece, sono diventato un Casanova un po’ attempato».
Titoli di testa «È strano come nascano a volte certe amicizie. Quella tra Ruggero e me ebbe inizio nel 1979, quando Karajan lo volle come Scarpia per una Tosca da eseguire a Berlino […] Raimondi fino ad allora aveva sempre cantato da basso, ma a von Karajan non si poteva rispondere di no. Accettò, ma, come spesso avviene ai cantanti di rango, dopo aver accettato fu colto da dubbi e timori. Ebbene, chi consultò? Un critico che qualche mese prima l’aveva maltrattato in occasione d’una recita fiorentina dei Vespri siciliani. Cioè l’infame Celletti. Costui al primo incontro chiese: “Come stiamo in alto?”. La risposta di Raimondi fu un la naturale, acuto, strabilante. Che non è nota da basso ed è rara anche nei baritoni. Lavorammo a quella Tosca per quasi un mese, registrando su nastro ogni giorno e ascoltando nota per nota. Così diventammo amici. “Quanto ti debbo?”, chiese alla fine. “Niente. Se pretendessi compensi sarei scambiato per un maestro di canto. Quindi nessuna paga. E poi: credi che lavorare con un cantante come te non mi abbia insegnato nulla?”» (Rodolfo Celletti, Amadeus, anno X, n. 4, aprile 1998).
Vita Famiglia molto religiosa, lui è il secondo di tre figli. Genitori appassionati di lirica, la casa piena di dischi. «Ruggero cominciò a sette anni a prendere lezioni di piano, ma le odiava e ben presto le abbandonò. Gli piaceva cantare però, e imparava a memoria tutte le grandi romanze che ascoltava sui dischi dei suoi genitori» (Helena Matheopoulos, Bravo Garzanti 1987) • Notato per la prima volta a 13 anni. È in spiaggia, sta cantando tra sé e sé il Credo dell’Otello. Due signori si avvicinano e dicono ai genitori: «Avete pensato di farlo valutare da un esperto?» • Due anni dopo, la nonna gli combina un’audizione con il direttore d’orchestra Francesco Molinari-Pradelli, che profetizza: «Farà una grande, sono pronto a scommetterci!» • Ha sedici anni quando si iscrive al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. «Mio padre era un commerciante appassionatissimo di opera: quando ha scoperto le mie possibilità vocali, non ha risparmiato mezzi e tempo per farmi studiare ed incoraggiarmi su questa via» (Carla Curina, Sta 9/1/1980). I genitori però lo ritengono ancora troppo giovane per andare a vivere da solo: e così, ogni giorno, viaggio in treno da Bologna a Milano, levatacce alle cinque di mattino • Alla fine dell’anno Ruggero non ne può più, riesce a convincere i genitori d’essere ormai grande abbastanza. Passa all’Accademia di Santa Cecilia, si trasferisce a Roma. Per quattro anni studia con Teresa Pediconi e Antonio Pervenanzi e si gode la capitale dei primi anni Sessanta. «Roma, per crescere, è un luogo meraviglioso» • Incontro decisivo: Piero Faggioni, che lo trae fuori dagli impacci degli esordi. «È l’uomo che mi ha cambiato la vita» • «Sapevo di avere un bel colore di voce, ma sapevo anche di essere una patata in palcoscenico. Colpa della mia solita timidezza: se muovevo anche un solo dito, mi sembrava che gli occhi di tutti fossero puntati su quel dito. E così il mio angelo custode mi ha consegnato a Faggioni e gli ha dato due mesi di tempo per prepararmi. La mia iniziazione è avvenuta […] allo Stadio dei Marmi, dove Faggioni mi costringeva a cantare Dio dell’or"saltando sulle gradinate, mentre i ragazzi che facevano atletica ogni tanto si fermavano a guardarci scuotendo la testa. Eravamo amici, fratelli, ma lui aveva un carattere pazzesco, quando si metteva in mente qualcosa bisognava assolutamente ubbidirgli» • Racconta Faggioni: «Raimondi […] impressionava per il contrasto tra la padronanza degli eccezionali mezzi vocali e lo scarso controllo di quelli fisici […] Nonostante la buona preparazione atletica e i diversi sport praticati, in scena la sua grande timidezza prendeva il sopravvento, irrigidendo il suo corpo in modo anomalo. Insomma, una voce eccezionale, ma prigioniera di un corpo ostile […] A volte, nei passaggi musicali più difficili, questa ostilità impediva a Ruggero perfino dei gesti elementari, come ad esempio quello di sguainare una spada esattamente a tempo. Ricordo che, durante le prove di Jerusalem mi avvicinai a lui dicendogli: “Devo capire cosa ti succede. metti la mano sull’impugnatura e pensa solo a cantare; estrarrò io la spada per te”. Così dicendo, appoggiai la mia mano sulla sua che stringeva l’elsa e attesi il momento esatto. Niente da fare; impossibile estrarla, anche per me! mentre cantava quella nota impegnativa, il braccio di Ruggero aveva la rigidità di quello del Convitato di pietra in visita da Don Giovanni! Lo guardai estrefatto. Capii allora che nello sforzo necessario a contrarre il diaframma per sostenere la "colonna sonora" - e forse per vincere la timidezza - gran parte delle sue energie andava dispersa in uno sforzo collaterale e improduttivo che lo irrigidiva […] Era un problema di insufficiente decontrazione analogo a quello che avevo constatato in altri giovani debuttanti, anche se in Raimondi impressionava maggiormente per il contrasto con le sue eccezionali qualità. Ma il problema andava superato rapidamente. I guasti provocati da anni di lezioni accanto al pianoforte senza curare altro che la voce, possono diventare irreversibili. È come se in un’auto potente venisse curata solo la manutenzione del propulsore...e non quella della frizione. Al momento di partire, il motore s’impalla e la macchina non si muove! […] Il piccolo miracolo si ebbe quando la voce non solo uscì con la grandezza di prima - non disturbata da tutto quel dinamismo - ma più bella, più libera e con molti colori, come una rapida, che precipita a valle, rallenta, si ferma, s’inpenna, riposa e riparte, uguale a se stessa e sempre diversa. E il corpo, non più ingombrante e ostile alla voce ma suo fedele servitore, la sublimava a strumento ideale d’una volontà d’esprimere presente anche nei momenti di silenzio, quando il cantante può riposare, ma il personaggio vive e ascolta. Era l’inizio della differenza tra cantare delle note e diventare un personaggio che si esprime in musica». «Vidi per la prima volta Raimondi abbandonarsi con stupore crescente alla gioia liberatoria di usare tutto il corpo […] come un “grande strumento" espressivo che arricchiva il suo canto [….]. Per qualche istante seguitò a cantare, dimentico di me e delle paure, teso dalla scoperta del suo nuovo Io, così libero e fiero. Poi tacque di colpo, come se avesse visto e sentito qualcosa di sé che neppure sperava, e mi fissò in silenzio: i suoi grandi occhi erano lucidi di commozione per lo stupore, la gioia e la gratitudine» (Leone Magiera, Ruggero Raimondi, Ricordi 1994).
Don Giovanni Il suo personaggio preferito. «Don Giovanni non può essere un ateo. Deve per forza essere un credente che resiste a Dio e lo sfida fino alla fine». «La grandezza di Giovanni sta nel contrasto tra la sua natura impudente, anticonvenzionale, e gli altri personaggi, tutti rispettosi e schiacciati dalle convenzioni del momento». «Lui infrange tutte le regole e le convenzioni in base alle quali vive la gente mediocre e comune. Questo rende tutti furenti di invidia e di desiderio. Lui è quello al quale tutti vorrebbero assomigliare, ma non osano». «Giovanni è un camaleonte: con la gente mite è affascinante, con i forti è ancora più forte e con i deboli si mostra annoiato. Il segreto per portarlo in vita sta in una miriade di colori vocali che dovrebbero cambiare da un istante all’altro». «Ciascun colore vocale - sempre differente per Zerlina, Anna, Elvira, Masetto, i contadini o Leporello - rappresenta un diverso linguaggio, e il fatto ch’egli intuisca per istinto quale tono usare per ciascuno di essi è quel che lo rende così elettrizzante e irresistibile ai loro occhi». «Inoltre, ogni pochi secondi ha un orgasmo, il che gli impedisce di rendersi noioso». «Il regista Franco Enriquez disse che Don Giovanni dovrebbe avere “una voce spermatozoica”, e mi sentii particolarmente lusingato quando aggiunse, “tu, Ruggero, dovresti essere un buon Giovanni, perché tu la voce spermatozoica ce l’hai!”» (Matheopoulos).
Amori Sposato con Isabel Maier. Benché abbia interpretato centinaia di volte il Don Giovanni di Mozart, pensa di non avere in comune con lui assolutamente nulla. «Sono un puritano, cresciuto in una famiglia cattolica. Ho freni inibitori spaventosi. A volte il mio personaggio mi choccava profondamente. Per esempio, in una scena, dovevo rispondere con slancio alle avancès di un giovane paggio. Non riuscivo ad immedesimarmi nella parte. Fortunatamente il regista ha avuto la brillante idea di fare indossare i panni dell’intraprendente giovanotto a mia moglie, salvandomi così da un grave imbarazzo».
Curiosità Soffre di insonnia, quando resta sveglio la notte guarda la tivù. «Le cose più belle le ho viste alle 3.30 o alle 4 di mattina» • È Grande Ufficiale della Repubblica • Se non avesse studiato canto, sarebbe finito a fare ragioniere • Nell’agosto 1978, uno degli interpreti di un Don Carlo al Festival di Salisburgo si era ammalato e non poteva cantare: gli telefonarono supplicandolo di sostituirlo, raggiunse l’Austria da Bologna a bordo dell’aereo privato messo a disposizione del direttore d’orchestra • «Sono un interprete “di testa”: leggo le monografie sui compositori, le lettere, gli epistolari, cerco di risalire alle fonti, alle partiture originali, non mi accontento mai delle note, e basta» • «Il palcoscenico produce molti problemi. La voce non è uno strumento che si accorda e si suona solo grazie alla tecnica, è soggetta alle condizioni ambientali, psicologiche. A seconda di come ci si sveglia la mattina, la voce sarà poi alla sera, anche se certo con lo studio tale margine si riduce. Ma se si è sensibili, la voce non è una macchina» • «Con il maestro Muti ci stimiamo. Ma non c’intendiamo» • Da giovane Katia Ricciarelli s’era invaghita di lui («con le mie compagne di conservatorio andavo a sentirlo in loggione alla Fenice») • Ha perso la testa qualche volta? «Spesso; amo la vita intensa e detesto la monotonia» (Curina) • Quando ha visto il film Farinelli – Voce Regina (Gérard Corbiau 1994) non gli è piaciuta la voce del castrato, ricostruita in studio («mi ha lasciato dentro una freddezza incredibile») • Gli piacciono i film di Ejzenstejn • Cosa si prova a cantare con un’orchestra come i Berliner in buca? «Si ha l’impressione di essere a bordo di una Ferrari che fa i trecentocinquanta all’ora. Ma è un bolide che passa dai trenta ai trecentocinquanta senza che tu te ne accorga» (Alessandro Taverna, Lyrica, luglio 1997) • In generale però, preferisce il teatro al cinema. «Il cinema dà una dimensione meno immediata. Tutto è perfetto, improbabile. Non così il teatro, dove voce e gesto hanno un loro intimo valore che il pubblico deve percepire, dove non ci sono primi piani e il rapporto è irripetibile» • Il teatro lirico non è ormai anacronistico? «No, se ha una sua forza drammaturgica. Un testo classico è senza tempo. Lo si può rendere moderno, se regista e direttore d’orchestra agiscono di comune accordo, con competenza e sensibilità».
Titoli di coda Accetta la definizione di artista? «Sì. Lo si può completamente essere solo poche volte nella vita. Richiede uno sforzo di concentrazione quasi inumano. Ricordo ancora con commozione un momento magico di grande creatività. Il Boris di Venezia nel ’72: al momento finale della mia morte, ho sentito che il pubblico, tutto, tratteneva il respiro» (Curina).