6 ottobre 2023
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Biografia di Piero Fassino (Piero Franco Rodolfo Fassino)
Piero Fassino (Piero Franco Rodolfo Fassino), nato ad Avigliana (Torino) il 7 ottobre 1949 (74 anni). Politico (Partito democratico; già Democratici di sinistra, Partito democratico della sinistra, Partito comunista italiano). Deputato (dal 23 marzo 2018; già 1994-2011). Ex sindaco di Torino (2011-2016) e presidente dell’Associazione nazionale Comuni italiani (2013-2016). Già ministro della Giustizia (2000-2001) e del Commercio con l’estero (1998-2000) e sottosegretario al ministero degli Affari esteri (1996-1998). Ultimo segretario dei Democratici di sinistra (2001-2007). «Sono stato l’unico a occupare scuola e fabbrica in giacca e cravatta» (a Giulia Cerasoli) • «Famiglia benestante la sua? “Agiata. Una famiglia di media borghesia torinese e di solide tradizioni antifasciste”» (Barbara Romano). «Mio nonno è stato un fondatore del Partito socialista, mio padre è stato uno dei più noti comandanti partigiani. Respiro politica dalla nascita» (a Claudio Sabelli Fioretti). «Mio padre era un capo partigiano socialista e un leader naturale. Mi ha fatto respirare il clima dell’epoca perché dopo la guerra aveva continuato a far politica nell’Anpi. Anche il suo lavoro di concessionario dell’AgipGas in Piemonte gli venne da quell’ambiente. Enrico Mattei, che aveva conosciuto nella Resistenza, lo chiamò a lavorare insieme ad altri ex partigiani» (a Stefania Rossini). «La mia prima tessera, l’ho presa a 14 anni, iscrivendomi a Nuova Resistenza, un’associazione giovanile antifascista nata sull’onda della lotta a Tambroni». «Quanto ha inciso nella sua vita il fatto di aver perso suo padre a 15 anni? “Molto. Il venir meno di mio padre in quel momento ha reso più complicato il mio passaggio dall’adolescenza alla maturità”» (Romano). «Il ragazzo se ne stava appoggiato contro la porta, impressionantemente alto e magro. Era andato dai dirigenti del Pci torinese (Adalberto Minucci, Lorenzo Gianotti e Diego Novelli) per ringraziarli della loro presenza ai funerali di suo padre, Eugenio, partigiano non comunista. E fu in quell’occasione che chiese di iscriversi al Pci. Minucci gli diede l’indirizzo del segretario della sezione del suo quartiere, che ne fu entusiasta: “Il ragazzo è bravissimo, sarà molto utile al partito”. […] Dopo un anno era già segretario della Fgci provinciale» (Agostino Gramigna). «Vero che lei ha giocato nella Juventus? “Certo, ho giocato come mezz’ala sinistra nella squadra juniores, fin quando un’infezione polmonare non mi costrinse a smettere”» (Romano). «“Ho fatto le scuole elementari alla Michele Coppino. Medie e liceo dai gesuiti. All’università, prima Giurisprudenza e poi Scienze politiche”. I miti di allora? “Bob Dylan, Beatles, Joan Baez, Georges Brassens”. Ti sentivi un rivoluzionario? “Ho fatto il movimento studentesco. Ma con la cravatta, non con l’eskimo. Qualche volta mi hanno perfino scambiato per un poliziotto”. […] Eri proprio comunista? “Se vuoi dire quel ‘comunismo’ là, assolutamente no”. Tendenza Veltroni? “Il Pci non rappresentava per me il comunismo”. Che cosa rappresentava allora? “La forza di sinistra che si batteva per la democrazia nel momento in cui le bombe cercavano di sovvertire la democrazia. Mi sono iscritto al Pci perché il Pci aveva protestato contro l’invasione in Cecoslovacchia. Mi sono iscritto al Pci ‘contro’ il comunismo. Contro quel comunismo là”. […] Se non eri comunista, che cos’eri? “Un riformista, un socialdemocratico, come tanti iscritti al Pci, magari senza saperlo”» (Sabelli Fioretti). «Entrai in Consiglio comunale in quello straordinario 1975 che vide la sinistra vincere in tutte le grandi città e Novelli divenire sindaco di Torino. E lo era ancora quando io divenni segretario della federazione torinese». «Erano i tempi del femminismo e io ero segretario della federazione di Torino. Entrai in una riunione e vidi Livia Turco con una gonna marrone e un golf blu, gli zoccoli e i calzettoni a strisce orizzontali che andavano all’epoca. L’insieme era sconcertante. La chiamai da parte insieme a un’amica conciata allo stesso modo, dissi: “Ragazze, questi sono i soldi per due biglietti per Parigi. Andate e guardate per una settimana come si vestono le donne”». «“Ho avuto anche la fortuna di incontrare sulla mia strada uomini importanti. Come Aventino Pace, un dirigente sindacale, capo del movimento operaio torinese, uno di quelli che sequestrarono Valletta quando ci fu l’attentato a Togliatti. Mi sono occupato di Fiat per 17 anni, e ho sempre seguito la sua massima: ‘Quando in fabbrica c’è un problema, o lo risolvi tu o lo risolve il padrone’. Insomma: mai tirarsi indietro e cercare sempre soluzioni”. […] Chi c’era a Torino allora? “Ricordo Giuliano Ferrara. Con lui ho avuto sempre un rapporto ottimo. Abbiamo vissuto la stagione del terrorismo ed eravamo tra i dirigenti più esposti quando il terrorismo cercava di infiltrarsi in fabbrica”. […] Da segretario avevi un buon rapporto con Agnelli. “L’avvocato Agnelli volle conoscermi appena venni eletto nel 1983. Fu una lunga chiacchierata, molto simpatica. Mi disse: ‘Senta, Fassino, io capisco tutto. A Torino ci sono tanti operai e voi siete il partito che li rappresenta. Ci scontriamo, ci mettiamo d’accordo, capisco tutto: comunista Torino, comunista Milano, ci sono le fabbriche. Ma una cosa non capisco: perché ci sono i comunisti a Roma e a Napoli?’”. […] Eri uno dei pochi dirigenti comunisti attento al mondo dell’industria, alla Fiat in particolare. “Della necessità di misurarsi con la mobilità e la flessibilità ho cominciato a parlare alla metà degli anni Ottanta”» (Sabelli Fioretti). «Nella capitale subalpina, nella company town dominata dalle cattedrali tayloristiche della Fiat, il “responsabile fabbriche” Fassino impersonava alla perfezione ciò che il sociologo Giuseppe Bonazzi chiamò il “metaregolatore”: vale a dire una funzione in grado di sollevare il conflitto e di moderarlo (e la possibilità di usare le cellule comuniste di fabbrica come un freno alle eventuali fughe in avanti del sindacato). […] Per lui, soprattutto per il dirigente politico e per l’uomo che crede nel progresso almeno condizionato dalla classe operaia, dev’essere una tragedia vedere concludersi con un disastro l’“ultima lotta”, quella del 1980, rimasta nella memoria della sinistra per l’icona di una sconfitta, Enrico Berlinguer ai cancelli della Fiat. “L’intera vicenda – commenterà Fassino – mette in evidenza la radicata persistenza nel movimento operaio di una dualità di fondo: il coesistere di un’anima ‘antagonista’ e di un’anima ‘contrattualista’”. È un punto di svolta. E, se non è senno di poi, questo giudizio rappresenta la matrice della visione riformista fassiniana» (Edmondo Berselli). «Un tempo, a Torino, pare che il giovane Piero si distinguesse anche per quel suo vizio o vezzo di mettere a posto le sedie prima e dopo gli attivi al federale; e quando venne a Roma, 1987, per giunta alla guida dell’organizzazione, arrivava alle Botteghe Oscure in orari pericolosamente antelucani, tanto che si pensò di dargli le chiavi del palazzo» (Filippo Ceccarelli). Divenuto deputato nel 1994, giunse tra i banchi governativi, con incarichi di crescente importanza, nella prima legislatura dominata dal centrosinistra. «L’esperienza al governo è più che altro un banco di prova che dimostra la sua dedizione impressionante, la conoscenza dei dossier, la mole ingente di lavoro che svolge. Ma i drammi del riformismo cominciano dopo il governo, dopo la sconfitta elettorale, la sera in cui Nanni Moretti sale sul palco e urla “Con questi dirigenti non vinceremo mai”, mentre il vertice dell’Ulivo ammutolisce di fronte alla piazza. Perché Fassino nel segno del riformismo vincerà il congresso di Pesaro, tuttavia la sua leadership sarà sempre sottoposta a tensioni fortissime. Ci vuole un impegno straordinario per tenere il timone della centralità riformista mentre infuriano i girotondi e volteggiano leader popolari come Cofferati che per una fase sembrano volare sull’onda movimentista» (Berselli). Tra il 2001 e il 2007 Fassino guidò infatti i Democratici di sinistra, eredi del Pds e quindi del Pci, alla fusione con la Margherita e altre formazioni minori nel Partito democratico. «Piero Fassino è diventato segretario della Quercia nel suo momento probabilmente peggiore. […] È naturalmente con la politica che Fassino è riuscito […] a trasformare un rissoso accampamento in un condominio relativamente ordinato. Dialogando con la sinistra interna così da eroderne i margini di consenso, tenendo a rassicurante distanza D’Alema e Veltroni, con i quali pure è forse il solo ad avere un ottimo rapporto personale, schierandosi convintamente con Prodi ma, al tempo stesso, difendendo le ragioni e il peso della Quercia, Fassino ha saputo costruire un centro solido, e per questa via proporre i Ds come forza centrale della coalizione» (Fabrizio Rondolino). «Proprio lui, che è l’uomo di partito per antonomasia, […] è chiamato a segare la Quercia per dar vita al Partito democratico. E senza neanche la certezza che sarà lui a guidarlo» (Romano). A guidarlo sarebbe infatti stato Walter Veltroni. Fassino fu in seguito nominato inviato speciale dell’Unione europea per la Birmania, incarico che ricoprì fino al 2011, anno in cui fu eletto al primo turno sindaco di Torino. «Qui a Torino il mio compito era di tenere in piedi una città malgrado la crisi. Alla fine, faccio il bilancio e dico: Torino è riuscita a stare in piedi. Anzi, di più: a realizzare il miracolo di progredire nella qualità della vita urbana» (ad Antonello Caporale). Nel 2016 non fu però confermato, venendo sconfitto al secondo turno dalla candidata grillina Chiara Appendino, «stella di quel movimento che il povero Piero sfidò pubblicamente: “Se Grillo vuol fare politica, fondi un partito, si presenti alle elezioni e vediamo quanti voti prende!”. Sta in panchina da allora» (Pino Corrias). Nel frattempo, all’interno del Pd, si era dapprima schierato con Bersani contro Renzi («Penso che il Paese abbia bisogno di una guida esperta e forte. Io sono per Bersani, che ha queste caratteristiche»), salvo qualche mese dopo appoggiare Renzi («l’uomo forte che rappresenta la capacità di novità») contro Bersani, sostenendo poi anche le ragioni della riforma Boschi in occasione del referendum costituzionale del 2016. Tornato alla Camera nel 2018 e confermato nel 2022, in occasione delle primarie di partito del 2023 Fassino ha sostenuto la candidatura di Stefano Bonaccini, mostrando scetticismo nei confronti di Elly Schlein («Cambiare per cambiare non è la strada»), risultata poi vincitrice. Grande rumore, da ultimo, quando, intervenendo alla Camera nell’agosto 2023, Fassino dichiarò polemicamente che «è un luogo comune che i deputati godano di stipendi d’oro»: «Ho qui con me il cedolino di luglio, e, fatti i giusti prelievi, l’indennità netta è di 4.718 euro al mese. Va bene così. È una buona indennità, ma non diciamo che i deputati godono di stipendi d’oro». «“Fassino ha parlato a titolo personale, in dissenso rispetto al voto del Pd. Noi continuiamo a batterci per il salario minimo”, puntualizza Elly Schlein in una nota. Tanto più che la frase del parlamentare, già su un terreno scivoloso, contiene un significativa omissione. Ai 5 mila euro netti di indennità vanno aggiunte diverse voci. […] L’ex segretario dei Ds non indietreggia di un passo, anzi risponde cifra per cifra. […] Più di tutto, il veterano del Parlamento rivendica il concetto di base: “Le risorse che riceve un deputato – conclude – non rappresentano una indebita forma di arricchimento, ma sostegno all’attività politica e parlamentare”» (Serena Riformato). «Io a Piero Fassino erigerei una statua equestre. A Piero Fassino, coraggioso fino alla temerarietà nel difendere il suo stipendio di parlamentare in quella congrega di populisti dediti da un trentennio a diffamare l’istituzione di cui fanno parte. A Piero Fassino, che […] ha rincarato e ha definito errori sia l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti sia il taglio dei parlamentari perché la democrazia è tale se ha dei partiti e se ha un Parlamento, oppure non è» (Mattia Feltri) • Grande clamore quando, il 31 dicembre 2005, il Giornale pubblicò il testo di alcune intercettazioni telefoniche tra Fassino e Giovanni Consorte, all’epoca dirigente di Unipol impegnato nella scalata alla Banca nazionale del lavoro: particolare scalpore destò la frase «Abbiamo una banca», pronunciata dall’allora segretario dei Ds. «Penso che ci sia molta cattiveria e ingenerosità nel modo in cui vengono utilizzate delle telefonate del tutto innocue. Io posso forse accettare di discutere dell’opportunità di quelle telefonate, ma non costituiscono certo né un reato né alcuna forma di illecito» (a Federico Geremicca) • Memorabile concessione al popolaresco la sua partecipazione alla trasmissione C’è posta per te (22 ottobre 2005), condotta da Maria De Filippi su Canale 5, in cui incontrò la sua antica tata, in un profluvio di lacrime e di ricordi d’infanzia. «Vederlo inquadrato in primo piano mentre capisce, si commuove, gli occhi si riempiono di lacrime, la gente applaude. Su, su, fa gesti con le braccia l’assistente di studio: più forte. È andata anche questa, un altro muro è caduto» (Concita De Gregorio) • Divorziato dalla giornalista Marina Cassi, è sposato in seconde nozze con Anna Serafini, che quando lo conobbe era autonomamente impegnata in politica già da una ventina d’anni. Non ha figli. «Vorrei aver avuto un figlio maschio a cui trasmettere amore ed esperienza» • «Sono un credente, ma, proprio perché si tratta di un fatto assolutamente privato, non ne ho mai dato manifestazione pubblica». «Essere di sinistra non è in contraddizione con la fede, perché significa battersi per la giustizia, l’uguaglianza, il rispetto della persona: valori cattolici» • Juventino • «Ha una faccia patibolare che sembra depositaria di tutte le sofferenza del mondo» (Irene Ghergo). «Un Berlinguer col nodo alla cravatta (striminzita) un po’ più stretto. Camicia dei grandi magazzini, col collo piccolino e mezzo inamidato. Pantaloni troppo larghi, con la piega in fondo che ricasca sulle scarpe. “Fassino non si può proprio guarda’”, sentenziarono Dolce e Gabbana. E lui spallucce. Stile “mi sono messo la prima cosa che ho trovato”. Che è decorosa sempre, ma guai a esser ricercata» (Costanza Rizzacasa). «Gli si rimprovera di essere privo di carisma, di avere un aspetto rassegnato e triste, e persino di essere troppo magro: ma, anche in questa immagine apertamente, persino spettacolarmente anti-spettacolare, c’è un’eco dei vecchi segretari del Pci, che si chiamavano per cognome, non frequentavano i salotti e preferivano una riunione di organizzazione o un comizio di periferia a un’intervista eclatante» (Rondolino) • «Io sono nato a Torino e sono sabaudo. Sono alto e magro e ho questa immagine un po’ austera, un po’ calvinista, tipica di chi è nato, vissuto e cresciuto in una città che è forgiata dalla cultura e dall’etica del lavoro. Una città fatta di understatement, dove nessuno deve mai superare un certo limite perché sennò viene considerato stravagante». «Lei è sempre così pignolo. “Sono cartesiano”» (Caporale). «C’è chi si sfoga mangiando, chi bevendo, io lo faccio con gli scatti d’ira. Passata la tempesta, tornano però presto a volar gli uccelli e si rafforza il rapporto umano» • «Io sono anche uno che ama la vita: mi piace ballare, il cinema, il teatro. […] Io sono un uomo allegro, contrariamente a quanto si dice. Purtroppo ho questo fisico alto, magro, che dà l’idea di un ascetismo che non è vero. […] Mi piace mangiare e bere bene. E adoro i gianduiotti» • Tra i soprannomi, «grissino di ferro» e «la sottile linea rossa» • «Figura che non si impone ma si ricorda, sempre un po’ piegato da un lato, a causa del vento e degli eventi che gli crollano addosso sorprendendolo» (Pietrangelo Buttafuoco). «È un ottimo dirigente, il tipo indispensabile nel gioco di squadra, un mediano alla Oriali, per citare una famosa canzone. Ma non sembra tipo da inventarsi nuove strade né possiede il carisma personale di un D’Alema o di Veltroni, Cofferati, Bassolino» (Curzio Maltese). «Se c’è in Italia un uomo intriso di Novecento, è Piero Fassino. È l’erede di un pensiero forte, di un’idea classica, fondata sul lavoro e sulla fabbrica. […] A rileggere Per passione, la sua autobiografia politica pubblicata nel 2003, si può rimanere sorpresi per come tratta Craxi e il Psi, anticipando praticamente tutti i revisionismi. […] Non condivide il giudizio “largamente diffuso nel Pci, secondo cui Craxi è il nostro peggior nemico”, e neanche l’esecrazione lanciata da Berlinguer verso Bettino “pericolo per la democrazia”. A suo parere Craxi ha posto le domande giuste, anche se spesso ha dato le risposte sbagliate. […] Fassino conosce il “dramma del riformista”, questa cognizione del dolore politico che assale i rivoluzionari più moderati e i riformisti più radicali quando devono fare i conti con le alleanze, gli avversari, gli amici, i compagni, i compromessi, perfino il governo, mentre qualcun altro può sfoggiare la sua purezza oltranzista» (Berselli) • «Dai gesuiti ho imparato una lezione: più che rassicurare i fedeli, bisogna preoccuparsi di evangelizzare gli infedeli. […] La sinistra deve fondare la propria identità sul mutamento e sulla capacità di tenere insieme modernità e diritti. È quello il campo della sfida: vince chi ha la proposta più convincente» • «La democrazia rappresentativa è stata la forma politica del Novecento, soprattutto nel secondo dopoguerra, fondata sulla centralità del Parlamento, su partiti strutturati, su corpi intermedi con una forte rappresentatività sociale. Le forme di organizzazione del potere sono cambiate ogni secolo. Forse dobbiamo pensare a cambiarle anche in questo nuovo secolo. È la grande sfida che sta davanti a noi, se vogliamo sconfiggere il populismo» (a Luigi La Spina) • «Ho sacrificato me stesso alla funzione che ricoprivo. E non so più se sia stato giusto».