7 ottobre 2023
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Biografia di Antonio Cabrini
Antonio Cabrini, nato a Cremona l’8 ottobre 1957 (66 anni). Allenatore di calcio. Ex calciatore. Oggi mental coach.
Titoli di testa «Il ricordo più bello? Tutti credono sia il Mondiale 1982. Invece è l’Albertoni, un torneo estivo per allievi che vinsi con la Cremonese».
Vita Papà agricoltore: «La cascina Mancapane è ancora il mio rifugio. Ci abitavamo noi e una ventina di famiglie di dipendenti. Producevamo frumento e granoturco, allevavamo mucche. Oggi l’azienda coltiva mais per produrre biogas. Papà mi voleva fattore» [a Candida Morvillo, CdS] • «Credo che mio padre mi abbia preso in braccio la prima volta quando avevo quattro anni. Erano altri tempi. E mamma mi faceva il sedere rosa a suon di sculacciate. Ne combinavo di ogni» [ibid.] • Quando ha cominciato a giocare a calcio? «Da bambino. E con me, a quattordici anni, su quel prato di Cremona c’era anche Cesare Prandelli. Sono cresciuto con il pallone, e così anche le mie amicizie più care. Cesare è il primo» [ibid.] • Passava le giornate a tirare calci a un pallone contro il muro. «Il muro mi restituiva sempre la palla e quello che succedeva dipendeva solo da me. Ho capito, anni dopo, che quel muro si comportava come la vita» [Chiara Dalla Tomasina, IoDonna] • «A casa mia ne sapevano così poco di calcio che mamma, per l’occasione, mi comprò un completo da basket». Quando scese in campo, tutti gli altri ragazzini ridevano. Ma Ivanoe Nolli vide in lui qualcosa e lo prese. In squadra c’era anche Prandelli: «È ancora il mio migliore amico» [Dalla Tomasina, cit.] • Nel 1971 vince il Trofeo Albertoni: «Lo vinsi con la Cremonese, squadra in cui ero entrato a 14 anni nonostante una raccomandazione… Era una spintarella al contrario. Mia madre mi portò al provino col Maggiolone di famiglia. Andò benissimo, ma c’era un problema. Il giorno prima mio padre aveva telefonato al presidente della squadra per chiedergli di rimandarmi indietro. Voleva che una volta adulto prendessi in mano l’azienda agricola di famiglia» [Francesco Oggiano, Vanity] • Lanciato in B dall’Atalanta, con la Juventus vinse sei scudetti (1977, 1978, 1981, 1982, 1984, 1986) e tutte le coppe: Campioni (1985), Intercontinentale (1985), Uefa (1977), Coppe (1984), Supercoppa (1984). Con la nazionale (73 presenze, 9 gol) vinse i mondiali del 1982. 13° nella classifica del Pallone d’oro 1978, 14° nell’84, 23° nell’83. Chiuse la carriera nel Bologna • «Terzino sinistro modernissimo, uno dei più naturalmente portati all’attacco. Si fa difficoltà a trovargli un punto debole: corre e spinge, contrasta e tira, è elegante e potente» (Sta) • Nel primo tempo della finale dei Mondiali dell’82, vinta dagli azzurri 3-1 contro la Germania, sbaglia un rigore sullo 0 a 0: «Per me fu un colpo terribile, sia perché all’epoca non si coltivava l’importanza degli errori come si fa oggi, sia perché capivo di aver sbagliato in una cosa che mi riusciva sempre bene e questo mi faceva molta rabbia. Comunque, ne fui alquanto scosso e, anche se poi il Mondiale lo vincemmo lo stesso, io avevo quel peso dentro. Che vivevo come una colpa, non come una casualità sfortunata. Così, sull’aereo del ritorno, mi avvicinai a Pertini e gli sussurrai: “Chiedo scusa per l’errore”. Il presidente mi guardò e mi disse: “Non dica sciocchezze, abbiamo vinto, è un grande risultato di tutti”. Eppure io avevo sentito il bisogno di scusarmi con lui, che lì rappresentava tutto il Paese» [Scorranese, cit.] • Lei è stato il primo giocatore italiano a fare pubblicità: merito, anche questo, della bellezza? «Era il 1978, Mundial d’Argentina. Il fondatore della Robe di Kappa, Maurizio Vitale, disse ai suoi collaboratori: “Questo Cabrini è una rockstar, è perfetto per noi”. Cominciò così. Nello spot correvo in un bosco con addosso una tuta» [Maurizio Crosetti, Rep] • Un’altra figura importante nella sua carriera è stato Giovanni Trapattoni. «Un uomo inflessibile. Non dimenticherò mai quella volta che mi indicò un percorso da fare di corsa entro un certo tempo. Quando aggiunse: “Se io trovo uno che, nello stesso arco di tempo, fa un passo in più, lo metto al tuo posto». È vero che Gianni Agnelli vi telefonava alle sei del mattino? «Eccome. Chiamava soprattutto Platini, ma una volta chiamò anche me e io non ricordo nemmeno che cosa risposi. Ma vorrei dire una cosa: Agnelli non era soltanto il proprietario della squadra, era un uomo che di calcio capiva davvero e che sapeva tenere certi equilibri. Platini lo scelse lui, così come anche altri. E ci teneva moltissimo alla squadra: un giorno lo vidi arrivare al campo di allenamento seguito da un uomo non tanto alto e ben vestito. Lo riconoscemmo poco dopo, era Henry Kissinger. Al campo l’Avvocato portava intellettuali, imprenditori, grandi protagonisti di quella che era la geopolitica dell’epoca: una visione molto lungimirante non tanto della squadra, quanto del calcio nella sua interezza» [Scorranese, cit.] • Quale ricordo conserva, oggi, di quella Juve a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, nella quale lei è stato anche capitano? «Una grande avventura prima di tutto umana. Vede, io sono nato a Cremona, sono tutto sommato un provinciale. Ma l’aver vissuto a Torino mi ha insegnato tanto. Per esempio, a essere più sobrio: ieri come oggi Torino è la città ideale per un calciatore, perché anche se ti riconoscono per strada, la ritrosia sabauda impedisce loro di fermarti e chiederti un autografo o una foto» [Scorranese, cit.] • «Ho avuto una situazione difficile perché a un certo punto rapirono quello che era il compagno di mia nonna. Iniziarono le trattative, però i sequestratori sapevano bene chi ero io e che cosa facevo. Con grande discrezione, il club mi mise a disposizione un’auto blindata per un certo periodo. Ricordo ancora che Boniperti veniva negli spogliatoi a sentire l’umore. Era evidente che anche noi eravamo preoccupati per il clima che si respirava, e così ci tranquillizzava dicendo: “Andrà tutto bene”» [Scorranese, cit.] • Chi è stato per lei Paolo Rossi? «L’amico più caro, il compagno di camera e d’avventura, il ragazzo che sorrideva sempre. Era così mite, così semplice, eppure è stato uno dei calciatori più importanti della storia, e dopo quei tre gol al Brasile era anche l’italiano più famoso al mondo». Cosa ricorda di lui? «Aveva sempre caramelle in tasca e le mangiava a raffica, di nascosto. Se gliene chiedevi una, diceva che era rimasto senza. Paolo mi manca tanto, però lo tengo per me. Un ragazzo semplicemente idilliaco» [Crosetti, cit.] • A quei mondiali, i giornali stranieri scrissero che lei e Paolo Rossi dormivate insieme ed eravate gay. «Fu un equivoco. Dormivamo insieme perché avevamo tutti una stanza in due. Una mattina, ci affacciamo alla finestra e sotto stanno passando i giornalisti che vanno in conferenza stampa. Uno, scherzando, chiede: “Chi dei due fa la moglie?”. E Paolo: “La più bella, ovviamente: Antonio”. I quotidiani italiani riportarono la cosa come uno scherzo, quelli stranieri non colsero lo spirito e scrissero come se fosse vero. Allora, quelli italiani ripresero di nuovo la storia e ne nacque un putiferio tale che la Nazionale fece scattare il silenzio stampa per dieci giorni. Però, i rapporti coi giornalisti erano già tesi, e quella fu solo la goccia che fece traboccare il vaso» [Morvillo, cit.] • Peschi tre immagini della sua carriera che hanno definito questi 60 anni. «Facciamo quattro, due bellissime e due orrende. Il primo trofeo che ho vinto da ragazzo con la Cremonese e ha dato il via a tutto e, inevitabile, il Mondiale del 1982. Poi però mi porto purtroppo dietro anche la notte assurda dell’Heysel e la morte di Scirea». Come ha reagito quando le hanno detto che era morto? «Ero a Bologna, è stato un trauma che non ho ancora superato. E non voglio superare: Gai per me è ancora qui. Non accetto il fatto che non ci sia più». Ha un suo ricordo speciale? «Era, e resta, una persona rara. In campo era un signore, e lo sanno tutti, fuori era una macchietta e io mi tengo stretto quel lato lì. Lui e io abbiamo vissuto il calcio allo stesso modo, con disincanto. Ci tenevamo lo sguardo da bambini. Saremmo così pure se giocassimo adesso». L’Heysel invece è una memoria più faticosa da gestire. «Non ci capimmo nulla quella sera. Non c’è altro da dire, tranne che non deve accadere mai più». Quando si è reso conto di essere campione del mondo? «Sull’aereo presidenziale. Non per il privilegio di viaggiare con Pertini, ma lì ho avuto quella prima sensazione di frenesia che a Ciampino è diventata gloria. Erano in 40 mila solo sotto l’areo, c’era l’Italia in strada. Avevamo davvero fatto qualcosa di speciale». Per questo voi campioni vi sentite ancora oggi via chat su Whatsapp? «E ci parliamo tutti i giorni. Mi sa che ci sentiamo ancora speciali. E fortunati» [Giulia Zonca, Sta] • «Il calcio è un mondo bigotto (...) si vive di superficialità e solitudine: il successo e i soldi non risolvono tutto, anzi» [Maurizio Crosetti, Rep] • Diventato allenatore, dopo alcune sfortunate esperienze in Italia è stato ingaggiato dalla nazionale siriana, avventura finita dopo pochi mesi («non si poteva lavorare nella più totale disorganizzazione»). Nel 2008 ha partecipato all’Isola dei famosi e pubblicato un libro giallo, Ricatto perfetto (Il Filo): «Mi avevano proposto di scrivere un libro sulla mia vita da calciatore, lo trovavo banale» [Gds 17/12/2008]. Sull’Isola: «non è una menata, è tutto vero: una trappola per topi che tira fuori il meglio di te» [Maurizio Crosetti, cit.] • Sempre nel 2008 ha pubblicato il suo primo romanzo, il noir Ricatto Perfetto. A questo libro è seguito un manuale di vita e di gioco, Non aver paura di tirare un calcio di rigore, edito da Bur. Eletto consigliere comunale di una lista di centrodestra a Bologna nei primi anni Novanta, nel 2009 si è candidato con l’Italia dei Valori nel Lazio, diventando responsabile sport del partito di Antonio Di Pietro. «Con Tonino mi intendo a gesti» [Marco Zucchetti, Giornale] • Il 14 maggio 2012 è stato nominato c.t. della Nazionale di calcio femminile, un mondo secondo lui «in espansione, sono convinto che si possa lavorare bene» [Cds] • Non ha apprezzato l’invito a fare coming out di Cesare Prandelli rivolto ai giocatori omosessuali: «Il mondo del calcio non è proprio quello ideale per dichiararsi (...) Negli stadi c’è molta ignoranza sul tema della diversità, basta vedere come vengono trattati i calciatori stranieri, si immagini che cosa accadrebbe se un giocatore in attività si dichiarasse, quale sarebbe la pressione mediatica sulla squadra, i compagni, l’ambiente» [Rep 2/5/2012] • Con il fratello Ettore e i figli Edoardo e Martina, si è lanciato nel mondo della ristorazione a cinque stelle, inaugurando nell’aprile 2016 il Pepita, il ristorante nato sulle ceneri del Pacifico, il locale che – insieme al Pineta – ha sempre rappresentato il polo della notte di Milano Marittima [Dalla Tomasina, cit.] •Lei oggi cosa fa? «Il mental coach. Le aziende mi chiamano per incontri motivazionali, quasi sempre su come si crea un gruppo vincente: io scelgo alcune parole chiave, che so, paura, forza, stile, poi mostro le slide e comincio la mia relazione. La domanda classica è come si costruisce un gruppo vincente. Mi piace coinvolgere il pubblico. Racconto aneddoti sulla mia vita, faccio domande. Sono cambiato, sono diventato estroverso. Alle aziende domando: quanto devo parlare? Un’ora? Due ore? Quattro? Nessun problema: parto e non mi fermo più. Vivo proprio di corsa. Sono preparato, ho anche scritto un libro sulle parole motivazionali. Un po’ come fare l’allenatore, con il vantaggio che non si perde mai» [Crosetti, cit.] • Non gioca più? «Calcio misto: uomini e donne. Con una quarantina di coppie, a rotazione, ogni settimana, componiamo due squadre. La regola è che possono segnare solo le donne e che mariti e mogli siano avversari». Come le è venuto in mente? «Se l’è inventato Marta, per riportarmi in campo. Sa che giocare mi diverte. E così ha imparato a giocare anche lei» [Morvillo, cit.].
Curiosità Amante delle auto, «ne ho scelta una con un sofisticato sistema di verifica. Voglio essere informato in ogni momento» [Roberta Scorranese, Cds 5/7/2010] • Una debolezza? «Se rispondo risotto alla milanese con zafferano e una spolverata di liquirizia va bene?» Di più. «Tortelli di zucca. Oltre non vado» [Scorranese, 2022] • I suoi scrittori preferiti? «Michael Collins, Ken Follett, Giorgio Faletti, il suo Io uccido mi ha sconvolto, ma sono cresciuto con Hemingway e Márquez» [Dalla Tomasina, cit.].
Amori «A 13 anni, la mia prima fidanzatina era la più bella del paese, ma non avevo la percezione di essere carino anch’io. Non sono mai stato vanesio, mi guardo poco allo specchio» [Morvillo, cit.] • Una prima moglie, Consuelo Benzi, i due figli Martina e Eduardo, la moglie attuale, Marta Sannito: «Gli amici ci chiamano Sandra e Raimondo. Discutiamo continuamente. Ma io sono più pacato rispetto a 40 anni fa. Non ho più voglia di litigare» [Oggiano, cit.] • La sua bellezza era leggendaria. «A casa arrivavano migliaia di lettere. Mamma rispondeva con pazienza a ogni singola dichiarazione, tanto che un giorno quelli delle Poste ci telefonarono: siccome li stavamo rendendo ricchi, vollero concederci una specie di annullo postale». E sua madre ha risposto a tutte? «No, in casa ho ancora cinque sacchi di quelli neri, dell’immondizia, pieni di lettere inevase. Povera mamma a un certo punto ha detto basta, non ne poteva più». Le mandavano anche dei souvenir? «A un certo punto ci ritrovammo con una specie di museo in casa: trecce, ciocche di capelli, biancheria intima, fotografie, anelli» [Scorranese, cit.] • Antonio, piccolo momento di gossip spicciolo: del suo flirt con Sonia Braga già sappiamo. Ci rivela adesso un altro amore del passato che non tutti sanno? «Devo proprio?» Eh sì. «Iris Peynado». La bellissima attrice di Non ci resta che piangere? «Una donna straordinaria. Invece Sonia Braga, che all’epoca era la donna di Robert Redford, me la presentò Gianni Minà, a New York, nel corso di una festa. Ma non è che io abbia avuto milioni di amori, eh».
Titoli di coda «Io anche quando gioco una partita importantissima mi diverto»