9 ottobre 2023
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Biografia di Gianni Berengo Gardin
Gianni Berengo Gardin, nato a Santa Margherita Ligure (Genova) il 10 ottobre 1930 (93 anni). Fotografo. Fotocronista. «Io non sono un artista, non ci tengo: sono solo un testimone della mia epoca» • «Mio padre è veneziano di piazza San Marco, mia moglie è veneziana, i miei figli sono veneziani. Io, pur non essendoci nato, mi son sempre detto veneziano di adozione» • «Famiglia borghese. Padre veneziano, funzionario della Camera di commercio. Madre svizzera, direttore de L’Imperiale [a Santa Margherita – ndr], il solo albergo, nell’Italia degli anni Trenta, ad avere tutte le camere con bagno» (Pino Corrias). «Un giorno si presentò mio padre. Veneziano. Era lì per una regata. Si videro, si piacquero, si amarono. Fui la conseguenza di quella storia». L’albergo «aveva un parco magnifico, le palme, la spiaggia. Ci venivano contesse inglesi e principi russi. Mia madre mi ha raccontato che uno dei Savoia fu padrino al mio battesimo, ma spero che non sia vero: me ne vergognerei troppo». «Ci trasferimmo a Roma, dove ho trascorso la mia adolescenza, dal 1937 al 1945. […] Odiavo le adunate del sabato, gli esercizi ginnici, le prove maschie. La fede nell’uomo del destino. Avevo un tratto dolcemente ribelle. Quando i tedeschi occuparono la città ci fu l’obbligo di consegnare sia le armi che le macchine fotografiche: presi quella di mia madre e due rullini. Andai in giro a fotografare la città. Fu il mio modo di protestare. Non so che fine abbiano fatto quelle foto. Immagino che siano andate perdute. […] Mio padre aveva partecipato a parecchie guerre ed era finito per alcuni anni in un campo di concentramento in Kenya. Al suo ritorno fu irremovibile. O studi o vai a cercarti un lavoro, perché io non ti mantengo. Ci trasferimmo a Venezia. Mia madre aveva aperto un negozietto di vetri su piazza San Marco. Ce la passavamo bene e non capivo perché mio padre dovesse avercela con me» (ad Antonio Gnoli). «In quegli anni per la mia formazione fu fondamentale, da un lato, leggere le Lettere dal carcere di Gramsci, dall’altro scoprire quella letteratura americana dai Quarantanove racconti di Hemingway a Faulkner, da Steinbeck a Dos Passos, uno degli autori che più ho amato. Scrivevo e fotografavo allora per Ali, una rivista illustrata di aviazione, come Eugene Smith ai suoi esordi. Poi, sotto l’influenza di Paolo Monti e del circolo fotografico La Gondola, fu la volta di immagini di nebbie, lagune vuote, case abbandonate. Tutte immagini superficiali. Per mia fortuna, uno zio che viveva negli Stati Uniti era amico di Cornell Capa, il fratello di Bob, e iniziò a mandarmi i libri, che in Italia sarebbero arrivati solo molti anni dopo, dei grandi fotografi americani come Dorothea Lange e David Douglas Duncan. Il lavoro per la Farm Security Administration e i grandi reportage di Life mi fecero capire in un istante che la fotografia non era quella delle albe e dei tramonti, ma uno straordinario e rivoluzionario mezzo per raccontare la nostra società. Venezia mi stava stretta, e nel 1954 decisi di andare […] a Parigi» (Mauro Vallinotto). «Rimasi lì per quasi tre anni. Per vivere cominciai a fare il cameriere. Passai, in seguito, a portiere d’albergo all’Hôtel de Paris. Avevo l’intero pomeriggio libero. Per un ragazzo poco più che ventenne fu un periodo straordinario. Naturalmente cominciai a frequentare l’ambiente dei fotografi. Fu così che divenni grande amico di Willy Ronis. Mi insegnò tutto quello che c’era da sapere sulle tecniche fotografiche, e soprattutto mi fece capire l’importanza che in una foto riveste il lato umano nella sua quotidianità. Conobbi anche Robert Doisneau». «Con Robert Doisneau litigò. “Non mi piaceva che mettesse in posa i suoi soggetti. Glielo dissi e mi tolse il saluto”. […] Mentre con Jean-Paul Sartre scappava nei cinemini a vedere i western. “Lo conobbi nel salotto di una signora, frequentato da scrittori, pittori, attori. Lui era già famoso ma non idolatrato come oggi. Io ero in gran soggezione ma ebbi il coraggio di dirgli che amavo il cinema: mi propose di andarci assieme. Chissà che noia di film d’essai mi costringerà a vedere, pensai. Mi portò a vedere un film di cowboy. Due mesi dopo ci rivedemmo, e di nuovo cowboy. Così per tre o quattro volte. Si vede che per lui erano rilassanti. Forse non aveva amici intellettuali a cui piacessero i film di cowboy”» (Michele Smargiassi). «L’incontro con Cartier-Bresson è avvenuto solo molti anni dopo. Allora Cartier-Bresson era già “dio” e quindi non facilmente raggiungibile, così mi sono accontentato dei “santi”. Da lì è partito tutto, e, infatti, in molte mie foto si vede l’influenza della fotografia francese più di quella americana» (a Rosa Maria Puglisi). Tra i soggetti più ricorrenti del periodo parigino, i baci in pubblico: «Quando ero giovane in Italia era proibito baciarsi in pubblico: ti potevano arrestare per oltraggio al pudore. Così, quando sono arrivato a Parigi, dove tutti si baciavano continuamente, sono diventato un guardone. Mi sembrava così strano che la gente potesse baciarsi dovunque – in strada, in autobus, in treno – che ero invidioso e avido di rubare queste fotografie di baci». «Tornai in Italia, a Venezia. Al negozietto. La prospettiva di occuparmi di vetri e di perle mi deprimeva. Ero un fotoamatore. Un dilettante che rischiava di affogare. Decisi di lasciare Venezia e trasferirmi a Milano. […] Fu allora che rividi Romeo Martinez, grande amico di Ronis e direttore di Camera, la più importante rivista fotografica del mondo. Mi disse: “Hai tutte le qualità per fare il salto. Dacci dentro. Deciditi”. Alla fine scelsi di dedicarmi interamente alla professione. All’inizio, con qualche compromesso. Che mi consentiva di guadagnare. In spiaggia facevo le foto dei “bimbi belli”, che se oggi ci provi ti mandano in galera come pedofilo. Allora no. Le mamme facevano a gara per far fotografare i loro bambini». «Milano, primi anni Sessanta: miracolo economico, giornali che aprono invece di chiudere, boom dei rotocalchi, della pubblicità, dell’editoria. Passa anche lui per il Bar Jamaica, conosce i pittori seduti al sole, incontra i giovani fotografi approdati da altre province, altri viaggi: Mario Dondero, Fulvio Roiter, Uliano Lucas, Gabriele Basilico. “A Milano scoprii che non c’erano solo i grigi nella fotografia, ma anche i neri di Ugo Mulas, le immagini incise dentro la luce vera”. Per vivere fotografa di tutto: un po’ di moda, un po’ di pubblicità, anche i matrimoni» (Corrias). «A mettere in contatto il giovane Berengo Gardin con il mondo della carta stampata milanese fu Leo Longanesi. “Lo incontrai per caso. Io stavo mostrando in un bar di Milano alcune mie immagini a un amico. Longanesi, che era a un tavolo vicino, allungò il collo e mi disse: ‘Sono belle: me le porti domani al giornale, ché gliele compro’. Non sapevo neppure chi fosse e di quale giornale stesse parlando. Quando mi spiegarono chi era, quasi non ci credevo. Il giorno dopo corsi da lui, e fu così che le mie prime foto apparvero sul Borghese, che allora non era così di destra come divenne in seguito”. Ciononostante in un giornale come quello non si trovava completamente a suo agio. “Fu lo stesso Longanesi che mi presentò a Mario Pannunzio e mi consigliò di collaborare con Il Mondo”» (Rocco Moliterni). «Sono partito una notte per Roma, vagone di terza classe con le panche di legno. Arrivo da lui alla mattina, gli porto una decina di fotografie di quelle che vivono di una sola immagine: un uomo e un cane, una ragazza sotto la pioggia. Pannunzio le compra tutte, mi dice: “È quello che cercavo, mandamene altre ogni settimana”. Esco da lì e sono felice: ho il mio primo contratto da vero fotografo». «“Conobbi Bruno Zevi, che insegnava alla facoltà di Architettura, e insieme pubblicammo, nel 1960, il mio primo libro, Biagio Rossetti architetto. Allora misi in una cartella le immagini che raccontavano una Venezia in bianco e nero, volti scavati dal tempo nel tempo, matrimoni e funerali, nessuna concessione ai canoni oleografici dell’epoca, e bussai alla porta dei principali editori italiani. All’ottavo rifiuto, sempre con la motivazione che un libro del genere non avrebbe mai avuto mercato, decisi di lasciar stare, e mandai le foto a una piccola galleria londinese. Qui, per caso, le vide Albert Mermoud, editore della svizzera Guilde du Livre. Mi convocò a Losanna, e in soli ventidue giorni, comprese le traduzioni dei testi di Bassani e Soldati, uscì Venise des saisons”. Da allora centinaia di reportage in giro per il mondo, intervallati da brevi pause a Milano, dove nel frattempo si era stabilito» (Vallinotto). «Quando Blow-up di Michelangelo Antonioni avrà reso popolare il modello del fotografo swinging, Berengo si sarà già appartato, avrà già pubblicato il suo Venise des saisons con testi di Mario Soldati e di Giorgio Bassani, avrà già pubblicato il suo Viaggio in Toscana in cui proponeva un’immagine dura, pietrosa di una regione svilita dai luoghi comuni. Avrà già espresso un suo giudizio accorato sull’uomo nelle immagini di un carnevale a Monaco di Baviera. Il Sessantotto lo sorprende con una Leica e una Nikon mentre in piazza San Marco fotografa un episodio della contestazione della Biennale veneziana. […] Gianni Berengo Gardin diviene celebre all’improvviso nel 1969. Con Carla Cerati produce le fotografie per un volumetto in edizione economica pubblicato da Laterza. Il titolo è Morire di classe, il testo è di Franco Basaglia, psichiatra. Le fotografie di internate in camicione, con la testa rasata, con gli occhi inchiodati al suolo, con l’espressione lontana, con la presenza accusatrice, servono a minare l’istituzione del manicomio più di mille discorsi. Mentre il suo nome diventa familiare, mentre sono in molti a sostenere che sia il maggiore fotografo italiano, Berengo continua a viaggiare per il Touring, si dedica a fotografare per l’Olivetti gli esempi di archeologia industriale che nel 1983 illustreranno un libro famoso e precoce. L’architetto Renzo Piano lo vuole come fotografo di scena, a documentare il progresso dei suoi cantieri nel mondo. In un cantiere in Giappone Berengo tradisce la Leica. Con in testa l’elmetto di plastica di rigore porta al collo una Nikon. Per gli amanti della precisione, una Nikon FE2. Con la stessa macchina si fa fotografare mentre fotografa lo studio spartano di Giorgio Morandi a Bologna» (Sandro Fusina). Nel 2022 è stato celebrato dal Maxxi di Roma con la retrospettiva «L’occhio come mestiere», comprendente circa duecento fotografie, alcune delle quali inedite • «Quando mi hanno dato la laurea honoris causa alla Statale in Storia e Critica dell’arte, ho pensato che non c’entrasse niente con me: dovevano darmela in Comunicazione. Sarebbe stato più giusto, anche se mi ha fatto molto piacere riceverla: io cerco solo di comunicare agli altri quello che vedo e mi interessa» • Oltre duecentosessanta libri fotografici. «Come mai hai pubblicato tutti questi libri? “All’inizio perché non avevo alternative. Dovevo campare. I giornali non volevano le mie foto. Dicevano che i lettori non le capivano. Sono riconoscente al Touring Club, con cui ho fatto 15, 20 libri almeno: Italia, Inghilterra, Svezia. Quello sull’Inghilterra è il mio libro più riuscito”» (Antonio Armano). «Il lavoro a cui tengo di più è uno che ha avuto meno risonanza, quello sugli zingari. Gente meravigliosa, umanità profonda e perseguitata» • Nel 2020 ha pubblicato presso Contrasto In parole povere. Un’autobiografia con immagini • Sposato con la progettista d’interni Caterina Stiffoni, due figli • «Mia moglie dice che sono un po’ matto. Perché non ho mai voluto in casa i ritratti di mio padre e mia madre. Li voglio ricordare com’erano secondo la mia sensazione. Non credo nelle foto dei defunti. Non credo nei cimiteri» • «Sono sempre stato di sinistra ma non ho ideologie: cos’era il comunismo, me lo insegnarono gli operai dell’Alfa che fotografavo a Milano; cos’è la giustizia e la dignità, lo vidi coi miei occhi là dove mancavano, nei manicomi». «Sei ancora comunista? “Lo sono sentimentalmente. Ho l’impressione che neppure la carta vetrata riuscirebbe a raschiare quella pelle che ho addosso. A volte mi dico: Berengo, tu lo sai, il comunismo ha prodotto solo cazzate e dolore. Però alla base c’era il bisogno di difendere la dignità umana. È quella che mi interessa”» (Gnoli) • Appassionato collezionista. «Ho cominciato già da ragazzino con le figurine Liebig, i modellini di navi o di aerei, i dischi, i libri. Le mie sono collezioni estemporanee, nate per caso. Non c’è specializzazione. Quando mi piace un oggetto, vado alla ricerca delle sue varianti» • «Nel mio archivio ho circa 2 milioni di fotografie, che vanno dall’Italia al Giappone alla Cina e all’Australia. Quando ero giovane facevo circa cinquantamila chilometri all’anno, non solo guidando ma anche fotografando, a volte accompagnato da un giornalista e altre da solo» • «Le sue immagini […] testimoniano in primis il modo in cui Berengo Gardin guarda l’uomo e il suo situarsi rispetto alla realtà che gli sta intorno. […] È questa storia che la fotografia di Berengo sembra testimoniare: che guardi al paesaggio della città o a quello rurale, che rappresenti le grandi navi a Venezia o i macchinari imponenti dell’industria, il mondo del lavoro o quello dei celebri architetti, il vero soggetto del suo lavoro è sempre l’uomo e la sua relazione emotiva, psicologica, comportamentale con il mondo intorno. La storia di una relazione che non la “semplice” immagine, ma solo la “vera” fotografia (quella che non è tagliata, manipolata, inventata a posteriori, suggerisce Berengo) sembra poter raccontare» (Simona Antonacci) • «Ho sempre lavorato senza assistenti, senza apparati, in casa mia. Ho dovuto rinunciare a certi incarichi, ho guadagnato meno, ma ho anche speso meno e mi sono sentito libero» • «Per me la pellicola è come un dogma per i credenti: ci credo all’infinito, anche perché, lavorando in una prospettiva di documentazione, di archivio, ci si deve anche porre il problema del supporto elettronico, che in breve tempo viene sostituito, cosicché le foto vanno perse». «In tutti i miei ultimi libri ho scritto: “Nessuna di queste fotografie è stata corretta, modificata o inventata al computer”. È una lotta con il digitale, con il computer, con il Photoshop; strumenti utili per certe cose in pubblicità, di fantasia. Ma è immagine. Non fotografia» • «C’è un mito, che le foto migliori siano quelle che ti costano più fatica ed elaborazione, ma spesso è vero il contrario: le foto vengono, un fotografo deve accettarle» • «Qual è la distanza tra una fotografia bella e una buona? “Enorme. Una fotografia può essere tecnicamente perfetta, ma non ti racconta niente. Buona può anche non essere tecnicamente a posto, ma ti racconta, ti dà una sensazione, un’impressione”» (Gabriele Santoro) • «Qualche tempo fa c’era una pubblicità che diceva “Non pensare, scatta!”. Io ai miei studenti dico sempre: “Prima, pensa: poi, semmai, scatta”» • «Io sono nato con il cinema in bianco e nero, con la tv in bianco e nero, ho succhiato bianco e nero per tutta la mia giovinezza, ne sono innamorato. Da un punto di vista grafico il bianco e nero è insuperabile. Ciò non toglie che ci siano fotografi capaci di usare il colore in modo straordinario. Ma il colore distrae… Quando fotografi a colori sei più attratto dalla maglia rossa del soggetto che dalla sua faccia: finisce che fotografi più il colore del soggetto. E questo, per me, è inammissibile» • «Non uso quasi mai il flash perché fa una luce irreale, e quando non ce n’è abbastanza preferisco rinunciare allo scatto. Non uso il cavalletto perché blocca la macchina, che invece deve navigare sempre libera, cercarsi la sua traiettoria. Non uso i super-grandangoli, tipo il 17 o il 15, perché deformano. Non uso i super-tele perché preferisco la visione naturale delle cose e non le prestazioni dalla distanza. Non ho mai fatto foto per la pubblicità. Non faccio still life. Non mi interessano il nudo o la foto posata, o la foto artistica, anche se qualche volta ammiro le fotografie di Helmut Newton» • «Ho sempre cercato di seguire due filoni. Uno più commerciale – anche se erano lavori di un certo valore culturale – per il Touring Club, la De Agostini, la Fiat, l’Iveco, l’Ibm: sempre lavori di reportage sociale, non di still life, comunque. Gli altri reportage erano alternativi e li facevo a mio rischio e pericolo: i manicomi con Franco Basaglia, le foto di Luzzara con Zavattini, gli zingari, le navi a Venezia. […] I tipi di fotografia che ho sempre fatto sono due: la foto singola alla Cartier-Bresson, che è come se contenesse tutto un racconto in una singola fotografia, e poi il racconto dei libri, con cui si può andare più in profondità, perché con cento foto puoi raccontare meglio una situazione» (a Giulio Dalvit). «I miei lavori sono tutti sociali. Era sociale e polemico il lavoro sulle grandi navi a Venezia, ma sono sociali anche i miei paesaggi. Per fotografia sociale la gente intende i morti di fame, ma io faccio fotografia sociale anche quando fotografo i principi Torlonia col cameriere» • «Mi dicono spesso che sono il Cartier-Bresson italiano. In realtà sono il Willy Ronis italiano, anche se una delle cose di cui più mi vanto è la dedica in cui Henri Cartier-Bresson mi scrive: “A Gianni Berengo Gardin con simpatia e ammirazione”. Avere l’ammirazione di Cartier-Bresson è il massimo, poi si può morire in pace» • «Nella vita ho fatto quello che volevo. E a dirla tutta non ho mai lavorato un giorno: sono stato un flâneur salarié, un viaggiatore incantato». «Come vorrebbe essere ricordato? “Come un uomo onesto in tutto, anche nelle fotografie”» (Smargiassi) • «Non crede in Dio, ma gli è sempre piaciuto fotografare le processioni, “quelle facce trasfigurate dalla luce delle candele”. Dice di essere “terrorizzato dalla morte”. Ma poi sorride: “Non so neanche immaginarmela. Come un nero assoluto, forse. Un buio che neanche una Leica saprebbe fotografare”» (Corrias).