17 ottobre 2023
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Biografia di Gianfranco Ravasi
Gianfranco Ravasi, nato a Merate (all’epoca in provincia di Como, oggi di Lecco) il 18 ottobre 1942 (81 anni). Cardinale (creato il 20 novembre 2010 da papa Benedetto XVI). Arcivescovo (consacrato il 29 settembre 2007). Biblista. Teologo. Ebraista. Dal 2007 al 2022 ha presieduto il Pontificio consiglio della Cultura, la Pontificia commissione di Archeologia sacra e il Consiglio di coordinamento fra Accademie pontificie. «Quando gli chiedo quante lingue conosce, risponde: “Greco antico, latino, aramaico, ugaritico, siriano, samaritano… O intendeva quelle vive?”» (Vittorio Zincone). «Il motto che ho scelto per la mia nomina vescovile, me lo ha suggerito il professor Massimo Cacciari: “Praedica Verbum”, “Annuncia la Parola”» • «La madre era cresciuta nella casa di uno zio senza figli: “Idealmente ceduta”. […] Sposa Paolo Ravasi, antifascista perseguitato, mai un posto vero perché rifiuta la tessera. L’Italia va in guerra, lo mandano in Sicilia a fermare gli americani: prima linea, carne da cannone. Ma il ribelle riempie il fucile di cemento. Non vuole sparare. Diserta e torna camminando. Quando arriva, il bambino lo rifiuta. Non sopporta che la vita a tre, con la madre e il nonno [cioè lo zio e «padre adottivo» della madre – ndr], venga turbata dalla presenza di chi non conosce. […] Quando è bambino segue il nonno sulla collina sopra il suo paese della Brianza. Dormono in una baracca per lavorare appena il cielo rischiara. “E al tramonto nella valle passa un treno. Il fischio del treno mi fa capire il senso lacerante e violentissimo della inconsistenza delle cose. Il treno sparisce. Resta la striscia di fumo. Avevo cinque anni, la sensazione mi segue nel tempo; diventa elemento sotterraneo e capitale della vocazione. Il bisogno di scoprire, nell’inconsistenza del reale, il senso del fine. Di natura sono pessimista, sento lo sfaldarsi della realtà. Ormai grande, ricordo quel fischio e quel treno che se ne andavano come la vita. Emozione che invitava a capire perché certe cose siano destinate a svanire. Adulto, le ritrovo nella Recherche: Proust e la memoria del passato sulla quale galleggiano foglie morte. Per me è il contrario: diventa l’invito alla permanenza”. […] La madre “rappresentava la genialità. Non dormiva per sfogliare libri. Ma la cosa che ancora mi accompagna è quel camminare con la mano nella mano del nonno. Non raccontava fiabe. Spiegava cose e persone che incontravamo per strada. Spiegava perché i meno fortunati alla domenica bevono e imbestialiscono e com’è la vita quando si nasce diversi. Spiegava come può presentarsi il potere. Era l’unico a tener testa al signorotto del paese a proposito dell’arroganza sui terreni. Succedeva attorno alla collina chiamata Colle di Brianza; Brianza cattolica e tradizionalista, che respirava con distrazione il flusso di Milano”. […] Comincia la scuola, a Merate, ospite di due zie, maestre alla Gozzano, zitelle, molto pie. Ogni tanto torna a casa; solo ogni tanto. Le distanze avevano misure diverse. Quindici chilometri dalla mamma, un’eternità. Comincia la seconda vocazione, sempre col libro in mano: De Amicis e Cuore e la fantasia di Verne. Le zie influiscono nelle scelte: ginnasio al seminario di Seveso, ambiente che gli sembra triste. “Quelle relazioni inamidate coi superiori e devozioni richiamate dal suono dei campanelli, e nuovi compagni così diversi dagli amici gioiosi della scuola di prima. C’erano anche le ragazze…”. Al liceo scopre una spiritualità di altro tipo. Primo amore, Platone. Divora i libri che gli suggerisce il professor Cipolla. […] Ricorda a memoria brani di Goethe e sei dialoghi di Platone in greco. “Bastava sfogliarli una volta e si fissavano nella memoria. Avevo questa fortuna”. Divide il tempo con due compagni di corso: Sandro Magister e Umberto Galimberti: “Hanno probabilmente sentito la frattura di un ambiente che non li favoriva e sono usciti”. […] Vuole fare il professore, latino e greco. Colombo (insegnante che diventerà cardinale a Milano) non è dell’idea: lo indirizza alle scienze bibliche. Comincia l’altra vocazione. Si innamora delle lingue morte, l’ebraico lo incanta. Lingua povera perché esprime la poesia della Bibbia “riuscendo a dire Dio in modo bello con appena 5.750 vocaboli. Il greco classico ne ha 40 mila, l’italiano 150 mila, l’inglese 500 mila”. Dedica una parte importante “all’invito dell’esegesi per andare al di là del versetto e scoprire quanto insegna la tradizione talmudica, dove ogni parola ha 70 volti”. Primi passi del giovane prete [era stato ordinato presbitero il 28 giugno 1966 dal cardinale Giovanni Colombo – ndr] col talento delle lingue» (Maurizio Chierici). «Il greco cominciò a impararlo dopo la quinta elementare, da solo, tanto lo attiravano – disse – “quelle 64.327 parole che compongono i quattro Vangeli in lingua originale”. Poi venne l’ebraico, e poi una dozzina di altre lingue antiche e moderne. Ma anche durante gli studi teologici, nel seminario di Venegono, i primi della classe erano altri, non lui. La diocesi di Milano lo mandò a completare gli studi a Roma, al Pontificio Istituto Biblico dove insegnava il suo futuro arcivescovo Carlo Maria Martini. I suoi primi libri furono di esegesi biblica pura. Come i tre imponenti tomi del suo commentario ai Salmi. Opere dottorali, per specialisti, però scritte con uno stile elegante e avvincente su cui gettarono gli occhi i grossi editori. Una più breve versione del commento ai Salmi entrò nella collana della Biblioteca Universale Rizzoli, destinata al grande pubblico. E fu la rivelazione del Ravasi grande divulgatore. […] Anche come professore di esegesi alla facoltà teologica di Milano Ravasi apparve subito fuori del comune. Mentre i suoi colleghi teologi, teste fini, scodellavano ai loro alunni lezioni e testi di scoraggiante complicazione concettuale e linguistica, lui no: sapeva farsi capire da tutti, con parole semplici eppure piene di sostanza, dentro e soprattutto fuori dalle aule accademiche. La sua fortuna come conferenziere e scrittore decollò veloce. […] Quando nel 1989 la carica di prefetto della Biblioteca e della Pinacoteca Ambrosiana, a Milano, rimase sguarnita, era quindi naturale che fosse conferita a lui, grande intenditore non solo di libri antichi e moderni, ma anche di arte e di musica. Con Ravasi prefetto, l’istituzione fondata nel 1607 dal cardinale Federigo Borromeo ha ottenuto un supplemento di celebrità senza eguali, nei suoi quattro secoli di storia. […] Nel 2005 sembrava fatta: per lui era pronto il vescovado di Assisi, la città di san Francesco: diocesi piccola ma grande tribuna mondiale. Quando però, il 25 giugno, la congregazione vaticana che si occupa della nomina dei nuovi vescovi riunì i suoi membri per l’esame finale, sul tavolo comparve il ritaglio di un articolo pubblicato da Ravasi il 31 marzo del 2002 sul supplemento domenicale del quotidiano economico e finanziario Il Sole 24 Ore. L’articolo era sulla Pasqua e il titolo redazionale diceva: Non è risorto, si è innalzato. Qualcuno aggrottò le ciglia, altri dissero che lì si intaccava la retta dottrina. Il cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della congregazione, ritirò la candidatura» (Sandro Magister). «Insomma, nel 2005 la carriera ecclesiastica di Ravasi sembrava doversi fermare al pur prestigioso incarico di prefetto della Biblioteca Ambrosiana. Ma non è stato così. Proprio con Benedetto XVI, complice la grande considerazione che il nuovo cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, nominato nel settembre 2006, nutriva nei suoi confronti, per Ravasi si sono spalancate le porte non solo dell’episcopato ma del cardinalato, con un incarico di rilievo in curia. Nel 2007 Ravasi fu chiamato a scrivere i testi delle meditazioni per la Via Crucis papale del Venerdì Santo, al Colosseo. E il 3 settembre dello stesso anno Benedetto XVI lo nominò arcivescovo e presidente del Pontificio consiglio della Cultura. Contestualmente, Ravasi fu nominato presidente anche di due commissioni pontificie, quella per i Beni culturali della Chiesa e quella per l’Archeologia sacra. E in queste vesti assunse la carica di presidente del Consiglio di coordinamento fra le Accademie pontificie. Inoltre, fu annoverato tra i membri della "Pontificia Insigne Accademia di Belle arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon". […] In questi nuovi incarichi Ravasi ha trasfuso la sua eccezionale bravura di creatore di eventi dall’alto impatto mediatico, culminati […] nella serie di incontri del Cortile dei gentili. Incontri che, partiti da una intuizione di Benedetto XVI nel 2009, sono stati messi in pratica da Ravasi con una impronta molto personale. Ma Ravasi ha dato prova anche di una spiccata abilità di manovra sullo scacchiere della curia romana. Gli organismi da lui presieduti hanno visto infatti un singolare moltiplicarsi di cariche e funzioni, determinato dalla necessità di trovare una collocazione per quegli ex dirigenti che hanno dovuto far posto ai nuovi entrati. […] Il grande dinamismo di Ravasi […] non ha mancato di creare malumori in quella parte della curia romana che non ha mai digerito il suo arrivo a Roma. E così nel 2008, quando Ravasi scrisse una prefazione a un’edizione illustrata del Gesù di Nazaret di Benedetto XVI, ci fu chi […] puntò il dito accusatore contro il modo con cui Ravasi aveva citato una frase del Papa. […] Ma furono solo innocue punture di spillo. Il 20 novembre 2010 Ravasi è stato creato cardinale» (Magister). «Divide il tempo negli incontri con tre tipi di persone: chi lo ascolta per fede, chi discute alla ricerca del piacere letterario, chi lo contrasta per convinzione atea con il rigore drammatico di una religione negata, ma che sfugge e deve inseguire. Preferisce gli atei (“purtroppo rimasti in pochi…”) agli indifferenti: “Incolori, inodori, insapori. Appagati e non inquieti”» (Chierici). «“Oggi c’è […] il problema di costringersi reciprocamente a discutere, confrontarci, operare su temi molto precisi. […] E qui sta il ruolo del methòrios”. Prego? “Methòrios, ovvero ‘colui che sta sulla frontiera’. […] Considero la mia posizione in Vaticano con questo aggettivo greco, usato nella classicità per indicare il sapiente e coniato da Filone di Alessandria, un tipico ebreo che scriveva però in greco e dialogava col platonismo. L’uomo di cultura cristiano dev’essere methòrios, cioè stare sulla frontiera, i piedi ben piantati sul proprio terreno (che è poi l’orizzonte della fede), ma continuando a guardare ciò che sta al di là. Infatti, da quando sono a questo posto, posso dire di aver aperto iniziative di frontiera”. Per esempio il “Cortile dei gentili”… “Il Cortile dei gentili è il methòrion per eccellenza, il luogo dove i ‘pagani’ possono interloquire con i credenti”» (Roberto Beretta) • Autore estremamente prolifico. Tra i suoi ultimi libri: Le pietre di inciampo del Vangelo. Le parole scandalose di Gesù (Mondadori 2015), apprezzato anche da commentatori tradizionalisti e spesso critici come Camillo Langone, Le Beatitudini. Il più grande discorso all’umanità di ogni tempo (Mondadori 2016), La Bibbia secondo Borges. Letteratura e testi sacri (Edb 2017) e Spiritualità e Bibbia (Queriniana 2018) • Firma prestigiosa di numerose testate giornalistiche (anzitutto Avvenire, Il Sole 24 Ore e Famiglia Cristiana), da anni è presente anche su internet, con un blog e un profilo Twitter molto seguiti. «Adesso è il momento di essere su internet. C’è un divario che va colmato, dopo il divorzio tra il linguaggio dei sacerdoti e quello dei fedeli. La Chiesa ha davanti un duplice problema. Da un lato deve riuscire a trovare un approccio nuovo. Dall’altro, far sì che il linguaggio nuovo non spenga il contenuto: ci sono valori grandissimi che, se ridotti dentro un formato troppo freddo, rischiano di svanire. Ecco la sfida complicata: l’anima deve entrare in un piccolo formato pur essendo infinita» (a Marco Ansaldo). «Lei digita da solo i suoi tweet? “Li detto. Io non uso telefoni cellulari e nemmeno computer”. E dove scrive i suoi articoli? “Li compongo nella mia testa, mentre passeggio per le strade di Roma. E poi li scrivo a mano. Per lo più senza correzioni”» (Zincone) • Dal 1988 al 2017 ha condotto, la domenica mattina su Canale 5, Le frontiere dello spirito, programma di approfondimento religioso di 45 minuti privo di interruzioni pubblicitarie, molto amato dallo stesso Aldo Grasso, che lo definì «l’ultima oasi nel deserto della tv italiana» • «Con le sue esegesi, Ravasi affascina anche strati di pubblico che alla messa non vanno mai e con la Chiesa hanno della ruggine. E così le sue conferenze: tanto richieste in ogni angolo d’Italia che per averle occorre mettersi in fila con uno o due anni di anticipo. Ravasi è un formidabile predicatore cristiano, è un Bernardino da Siena, un Paolo Segneri, un Bossuet in versione moderna e mite. Quando tiene un discorso non legge, sembra che ogni volta improvvisi, ma il suo periodare ha l’infallibile scansione di un libro stampato. Spazia con competenza su qualsiasi tema, e per ogni cosa ha pronta la citazione di un autore illustre, sempre però con la Bibbia come origine e fine di tutto. È un’enciclopedia vivente da prima che inventassero i computer. E anche dopo la loro invenzione continua a scrivere a penna, senza correzioni, con tanto di note a piè di pagina. Un Pico della Mirandola del terzo millennio […] I suoi critici accusano Ravasi di vendere fumo per ingraziarsi il favore di tutti. Ma all’occorrenza egli sa sfoderare gli artigli. Sui temi cruciali dell’aborto, dell’eutanasia, della vita nascente, quando sono in gioco i princìpi ultimi, si fa tagliente come una spada. Predica rispetto assoluto della vita d’ogni uomo in ogni momento, “per lo stesso motivo per cui si deve rispetto anche all’uomo peccatore”. Anche per questo non c’è mai stata molta sintonia tra lui e il cardinale Martini, suo arcivescovo per più di vent’anni, più problematico e sfumato nell’applicare i princìpi alla complessità della vita reale» (Magister). «In che cosa crede […] il cardinale Ravasi? Sicuramente nella propria capacità di unire gli opposti, di tentare spericolate sintesi intellettuali, di dire e non dire, lasciando intendere a chi vuole intendere. Ma cosa c’entra tutto questo con la pienezza e la integrità della fede cattolica, la gloria di Dio e la salvezza delle anime? Glielo chiediamo sommessamente, con tutto il rispetto che si deve a chi resta, comunque, un principe della Chiesa e un successore degli Apostoli» (Roberto de Mattei) • «Quanti libri legge ogni anno? “Centinaia. Ammetto però che i contemporanei non mi appassionano più di tanto. Leggo molto di notte. Dormo poco più di quattro ore, e mi bastano”» (Zincone) • «La via della bellezza è da sempre una lingua della religione. La bruttezza estetica genera bruttura etica. Oggi però si è celebrato un divorzio fra arte e fede. La prima è autoreferenziale, non si interroga più. La fede e la Chiesa si sono spesso rassegnate all’artigianato con chiese orribili» (a Lucia Galli). «Dobbiamo educare architetti e artisti ad assimilare il senso del mistero, far comprendere loro che lo spazio sacro prevede una dimensione orizzontale – il ritrovarsi della comunità – ma anche una dimensione verticale, cioè il rapporto con il mistero, con Dio. Bisogna ritrovare il genere letterario del tempio. Ciò non significa un semplice rifarsi al passato. Un tempo l’artista “respirava” un’atmosfera imbevuta di cristianesimo, sapeva che cos’è una chiesa. Oggi non è più così. E i fedeli hanno tutto il diritto di pretendere delle chiese che siano davvero chiese» (ad Andrea Tornielli) • «“Il mio è il tentativo, compiuto anche con autori palesemente atei, di mostrare che in tutti esiste un seme di verità e che la Scrittura non illumina il quotidiano dall’alto, come un sole trascendente e distaccato, ma è intrisa con la polvere della terra e s’intreccia alle vicende di tutti. Del resto, la Bibbia di sua natura non è solo Parola di Dio, lo è anche dell’uomo”. Quindi […] si sente autorizzato a spaziare da Mauriac a Baglioni, da Charles de Foucauld al cartello appeso in panetteria; cita il salmo e il giorno dopo il proverbio cinese, Shakespeare e Roberto Gervaso, Goethe e Bob Dylan. […] “Persino nell’autore più banale (o in quello da cui prendo esplicitamente le distanze) cerco di vedere la scintilla del Verbo. Lo sostenevano i Padri greci: ognuno porta un seme di Dio. Ognuno, non solo il dotto: anche il panettiere ha qualcosa da dire. Magari è solo un momento di un’esistenza che va in tutt’altra direzione, ma c’è. E nella diversità vorrei riuscire a riconoscere l’elemento comune universale”» (Beretta). «“Cristo per comunicare ha già usato la televisione e i tweet. E i suoi discorsi sono redazionali, perché mettono insieme delle frasi”. In che senso? “Il Discorso della montagna. Si tratta di una serie di interventi che Gesù ha fatto in momenti diversi: 35 parabole. Che cos’è questo, se non televisione? Oppure il figliol prodigo: che fugge, mangia coi porci, se la gode con le prostitute, poi torna. Ci si legge una sceneggiatura”. E i tweet? “La prima predica di Cristo, se stiamo al testo greco, in Matteo, è in poco più di 30 caratteri, con gli spazi arriveremo a 40. Con Marco, un po’ più lungo, arriviamo a 70-80. Sono tweet. E c’è tutto. La prima predica è la dimensione teologica in due parole: ‘Il regno di Dio è vicino. Convertitevi’”» (Ansaldo) • Negli ultimi anni ha provato ad avvicinarsi anche alla musica rap. «Anche il rap, sì, sto tentando. Qualche tempo fa ho incontrato un rapper, Anastasio, nel quale ho scoperto una profondità inattesa. I suoi testi sono uno specchio limpido delle attese profonde dei giovani» • «Oggi se un giovane si limita a messaggi ed emoticon la relazione resta in superficie. I sentimenti faticano a trovare spazio, a meno che non siano eccezionali ed estremi». Rischiamo di perdere parte dell’anima? «I viali dell’informatica non conoscono troppo l’equilibrio e lasciano l’anima monca. Anche l’eros nel senso autentico si trova raramente, mentre ce n’è una valanga inteso come lussuria» (Francesco Rugatelli) • «In Occidente, anche in Italia, noi cattolici e in generale noi credenti dobbiamo essere consapevoli che siamo una minoranza. Molti ecclesiastici lo rifiutano, quando lo dici ti fermano. Vivono come se ancora fossimo in quei paesi dove la domenica mattina suonavano le campane e la gente accorreva a messa» E invece, eminenza? «Prevale l’indifferenza, l’irrilevanza del fenomeno religioso. È il problema del secolarismo, o della secolarizzazione. Non è un rigetto del sacro o del trascendente, un rifiuto aggressivo: gli atei conclamati ormai sono ben pochi. Piuttosto è una forma di apatia religiosa. Che Dio esista o meno, è lo stesso. E questo comporta la caduta di un sistema etico: i valori sono autoprodotti» […] E allora come si fa? «Ci sono due strade fondamentali. La prima è ridursi a dire il minimo assoluto, religioso e morale. Riconoscere la tendenza al soggettivismo e concedere quasi tutto, come fanno molte chiese protestanti: meglio il minimo che il vuoto. Non sono d’accordo. La presenza dei credenti, anche se minima, dev’essere un urlo, non un sussurro». La seconda strada? «Sì: conservare il nucleo, il kèrygma della fede, le grandi parole ultime: il Decalogo, il Discorso della Montagna, la verità, la vita e la morte… Fare come San Paolo nell’Areopago di Atene, pur sapendo che è possibile anche il fallimento. La sconfitta e il rifiuto sono parte della dinamica dell’annuncio». Il Vangelo «sine glossa»? «Sì. Ma per far capire la forza, la radicalità evangelica delle Beatitudini, non basta limitarsi a leggerle: devo spiegare in un linguaggio che le attualizzi. San Paolo lo aveva capito, ha preso il nucleo cristiano, il kèrygma, e lo ha trascritto in un linguaggio che non era più quello giudaico di Gesù: il greco di San Paolo era l’inglese, il digitale di allora» (Gian Guido Vecchi) • «Ho scelto la divulgazione attirandomi le critiche di chi non era d’accordo perché la divulgazione è un piano inclinato: può finire nelle sabbie dell’ovvietà. Ma mi ha permesso di realizzarmi come uomo e sacerdote. Se mi fossi chiuso nei libri, sarei ancora molto timido».