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 2023  ottobre 21 Sabato calendario

Biografia di Marco Lodoli

Marco Lodoli, nato a Roma il 22 ottobre 1956 (67 anni). Scrittore. Per anni insegnante di Lettere nell’istituto professionale “Sandro Pertini - Giovanni Falcone” alla Borghesiana. Collabora con la Repubblica (la rubrica si chiama “Isole”) scrivendo soprattutto di giovani e scuola. Scrive anche per Il Foglio. Tra i suoi libri: Diario di un millennio che fugge (Theoria, 1986), Snack bar Budapest (scritto con l’ex moglie Silvia Bre, Bompiani, 1987), Grande circo invalido (1993), Cani e lupi (1995), La notte (2001), Professori e altri professori (2003), Isole. Guida vagabonda di Roma (2005), Bolle (2006), Sorella (2008), Il rosso e il blu, cuori ed errori nella scuola italiana (2009), Italia (2010), Vapore (2013), Nuove isole (2014), Paolina (2018) e Il Preside (2020) gli ultimi tutti editi da Einaudi.
Vita «Avevo una nonna che viveva a Monfalcone dove passavo l’estate, lì conobbi una ragazza e rientrato a Roma durante l’inverno per mantenere i contatti le scrivevo lunghissime lettere, era un modo per abituarsi a esprimere sentimenti veri, è stata la prima forma di scrittura creativa della mia vita”, ammette» • «La scuola elementare Ugo Bartolomei di via Asmara a Roma, tra il 1962 e il 1967, una vita fa: e infatti quando provo a resuscitare nella memoria quel tempo trovo pochi frammenti che fatico a collegare. Ma la maestra Greco, prima e seconda, e il maestro Castelli, dalla terza alla quinta, me li ricordo bene, sono le prime persone che mi hanno insegnato a non piangere (non so perché, ma avevo la lacrima facilissima, tutto mi turbava), a tenere in ordine le mie cose, ad ascoltare, a fare fino in fondo il mio dovere. Era un mondo silenzioso, completamente diverso da quello dei bambini di oggi, smaniosi e strepitanti. La maestra Greco dettava e io scrivevo, cercando di non commettere il minimo errore perché non dovevo deluderla. Il maestro Castelli spiegava a lungo la matematica, e io stavo attento, incolonnavo, risolvevo tutti i problemi. Mi chiamavano Lodoli, erano severi, esigenti, malinconici: sapevano ogni cosa, tutti i fiumi d’Italia, tutte le capitali, tutta la storia romana, e io pensavo che fossero immortali» • Ha studiato al Liceo Classico San Leone Magno di Roma con Walter Mauro, dove tra i compagni di classe lo scrittore Edoardo Albinati. «Ha un buon ricordo dei suoi anni da studente? “Non tanto, ero in una scuola di preti... Ma più che i contorni della scuola, ricordo quel lungo periodo di incubazione. Dice Robert Walser che quando si è giovani bisogna essere a lungo niente, non si deve aver fretta di diventare qualche cosa. Forse adesso questo tempo di stallo viene un po’ bruciato dai ritmi, dalle offerte pressanti della vita, dall’ansia dei ragazzi di significare qualcosa. Però io ho nostalgia di quella situazione un po’ incantata che sta fra la malinconia, la noia e l’attesa, che sembra immobile e dove invece accade così tanto» (a Ernesto Regazzoni) • Laureato in Lettere. «A vent’anni scrisse un piccolo libro di poesie autoprodotto, “lo spedii a Jorge Guillén, maestro della poesia spagnola del ’900, l’unico che conoscevo perché aveva un legame con la mia famiglia” racconta, “mi rispose con una lettera delicata che mi incoraggiava ad andare avanti, una lettera dal cielo della poesia” dice enfatico. Un’altra lettera che lo colpì moltissimo fu quella di Giulio Mozzi, “mi inviava un suo racconto che tra l’altro era in forma di lettera, con un biglietto allegato scritto a mano dove diceva che certe cose bisognava comunque farle come certi brani radiofonici di musica che vanno in onda di notte e magari non hanno nessun ascoltatore”. Lodoli ha insegnato per tanti anni italiano in un istituto professionale di Roma, ed è stato anche consulente governativo in materia scolastica. In un pezzo scritto per un quotidiano si è finto ministro, dicendo che la missione di un insegnante deve essere quella di “educare, preparare, formare”, glielo ricordo. “Sembrerebbe un luogo comune, invece viviamo in un tempo in cui alla scuola si chiede di preparare i ragazzi alla competitività e all’individualismo, mentre invece credo che il suo ruolo sia quello di guidarli alla scoperta della propria natura, la scoperta di sé stessi che si intreccia con quella degli altri”. Afferma anche polemicamente che “la cultura umanista sembra aver concluso il suo ciclo, viviamo in un tempo dell’attimo, il passato è passato, quelli della nostra generazione con Dostoevskij, Vivaldi e Leopardi ci stavano parlando, adesso i ragazzi hanno perso contatto con questo patrimonio”» (ad Angelo Ferracuti) • «Mi rivedo in Vespa nel 1980, diretto verso una piccola scuola privata sui colli romani, tra Grottaferrata e Frascati. Avevo ventitré anni e cantando andavo verso una ipotetica assunzione come professore di Italiano e Storia in quell’istituto agrario di cui non sapevo ancora niente. Mi ero laureato pochi mesi prima, con una tesi sulla poesia degli anni Settanta, poi ero andato a Parigi con la mia bella fidanzatina, avevo girato in autostop insieme a lei la Normandia e la Bretagna e al ritorno a Roma mi ero detto: “Adesso devo trovare un lavoro vero”. Avevo battuto a macchina una pagina di curriculum che conteneva poco o niente, avevo fatto dieci fotocopie e le avevo imbustate e spedite a scuole private e parificate di Roma e dintorni. Dopo pochissimi giorni mi era arrivata la telefonata del gestore della scuola ai Castelli, appena aperta, che cercava insegnanti di tutte le materie. Altri tempi, in cui il lavoro non era ancora un problema terrificante. E così ora volavo incosciente e ottimista verso quel primo colloquio. La scuola era una villetta persa in una stradina laterale, e il gestore era un tipo davvero strano, da poco rientrato dal Sud America e pieno di belle speranze e di spirito d’avventura: nel cortile, in una grande gabbia, girava in tondo un lupo siberiano, e dentro alla scuola c’erano acquari con pesci esotici e piraña, e uccellini coloratissimi che svolazzavano liberi nei corridoi. Non cercai nemmeno di fare bella figura, di vendere chissà quale merce intellettuale, dissi solo che ero pronto a lavorare anche dal giorno dopo: sprizzavo energia, avevo i capelli lunghi e una incomprensibile fiducia nelle mie possibilità. Gli anni Settanta, anche se di piombo, erano volati via anche loro. Avevo fatto il liceo tra i fascisti del Circeo, affrontando momenti abbastanza duri, e poi, per una assurda serie di circostanze, mi ero ritrovato in via delle Botteghe oscure quando era stato trovato il cadavere di Moro, e su Ponte Garibaldi quando era stata uccisa Giorgiana Masi, e proprio sotto casa mia avevo visto la macchina crivellata di colpi del giudice Occorsio. La sera andavo spesso al cineclub L’Officina, e dopo aver visto mille film formalmente spericolati, intellettualmente arditi e complessi, ero rimasto incantato davanti a un piccolo film di un giovane regista tedesco, Wim Wenders. Il film era Alice nelle città e raccontava lo smarrimento di un uomo che vagava per la Germania insieme a una bambina. C’era qualcosa di romantico in quello stupore e in quel vagabondaggio privo di pensieri, e io ebbi l’impressione che fosse un punto di svolta nella mia vita e anche nella cultura del tempo. Come quell’uomo anche io non capivo quasi nulla di tutto quello che accadeva, e come lui sentivo che comunque dovevo prendermi cura di una fragilità, di un’innocenza, di altre vite piccole e indifese. Chissà, forse fu proprio uscendo da quella saletta fumosa che decisi – ma decidere non è il verbo giusto, non si decide mai niente, semplicemente ci si ritrova sulla propria strada – di scrivere un romanzo e anche di provare a essere davvero un insegnante di scuola. Frequentavo un ispirato gruppo di poeti, Claudio Damiani, Arnaldo Colasanti, Paolo Del Colle, e naturalmente Edoardo Albinati, con cui avevo passato tutti gli anni delle medie, del liceo e dell’università. Anche loro si sentivano ormai lontani dalla bufera ideologica degli anni Settanta, da quei linguaggi così astratti e rigidi, e cercavano una nuova naturalezza, una lingua più semplice ed espressiva. Per questo avevamo inventato una piccola rivista, “Braci”, poverissima per necessità e volontà, quasi francescana nella sua nudità. E poi tutti quei poeti, che strano, sono diventati come me insegnanti in scuole di frontiera, periferia o carcere. Non credo ci sia stata chissà quale vocazione missionaria, solo il desiderio di stare più vicini possibile alla vita nella sua manifestazione più semplice e immediata. Tante volte i miei familiari mi hanno detto: “Marco, perché non fai domanda per insegnare in qualche liceo del centro, al Visconti, al Tasso, al Giulio Cesare, sicuramente lì potresti avere più soddisfazioni, troveresti studenti più attenti e preparati…”. Potrei rispondere che la mia è stata una scelta politica, esistenziale, pedagogica, imbastire qualche nobile discorso sugli ultimi, sui diseredati che più di tutti gli altri hanno bisogno di attenzione e dedizione, ma forse direi solo bugie. Ho insegnato sempre in scuole marginali perché non mi sentivo all’altezza delle scuole eccellenti, mi sarei sentito sempre a disagio, forse non abbastanza preparato e capace. Se ho passato quarant’anni in periferia, tra ragazzi spesso somarissimi e poco motivati, umanamente smarriti, figli di un dio minore e di famiglie sbandate, è perché la mia parte più autentica e sincera si è ritrovata a casa in quei contesti: diversa ma simile, forse più consapevole ma ugualmente sbalestrata, come se la vita vera degli esseri umani fosse quella, fosse lì, e il resto fossero solo illusioni o addirittura presunzioni» (Il Foglio) • «Non sono un autore cosiddetto realistico. Mi interessa la realtà nella sua dimensione metafisica, come un’avventura spirituale dell’anima. Le mie opere sono un po’ come delle promesse di senso, una speranza che poi tutto quello che ci accade abbia un contatto con l’eternità» (ad Alessia Lipparoti) • «Sono i professori la piaga della scuola, rubastipendi senza passione, anacronistici difensori di antichi valori privi di senso. Tutto funzionerebbe a meraviglia, se queste cariatidi superbe fossero più preparate. Il mondo va avanti e loro sempre indietro, gessetto e autobus, Aristotele e Leopardi, giacchetta striminzita e bella ciao...» • Nel 2007 attaccato dal Secolo d’Italia. «Al Secolo mi tengono d’occhio perché mio padre (Renzo, ingegnere - ndr), è stato un fascistone. Però in parte è vero quel che scrivono. I miei riferimenti letterari non sono a sinistra: Landolfi, Ortese, Dostoevskij. Faccio una letteratura spiritualista. Ma sono anche attento alla periferia, alla scuola, alla società. Facevo parte del cristianesimo socialista. E della sinistra mi piacciono i valori della solidarietà» • «Il Preside protagonista del suo ultimo romanzo (ed. Einaudi) prima di andare in pensione decide di barricarsi nella scuola, contro tutto e tutti. Perché lo fa? “Proprio per richiamare allo sguardo del mondo quello che è il ruolo della scuola pubblica: conoscenza di tante materie, ma anche conoscenza di sé stessi. Negli anni delle superiori, dell’adolescenza, dell’affacciarsi ai 18 anni, è necessario che scatti negli alunni anche un percorso di autoconsapevolezza. Il rischio è che l’insegnamento diventi sempre più impersonale e che si affidi solo a coltivare le competenze, che ci sia troppo tecnica, invece l’aspetto di crescita individuale e collettiva non deve essere assolutamente trascurato”. Cosa diresti ad un ragazzo o ad una ragazza che vuole lasciare gli studi? “Ho insegnato tanti anni in periferia e ho avuto a che fare con ragazzi che spesso sparivano e poi riapparivano, allora bisognava andarli a cercare, inseguirli. Ho sempre spiegato a questi giovani che il loro posto è la scuola perché è lì che trovano il cibo migliore: passare le proprie giornate in una piazzetta fuori da un bar, svegliarsi a mezzogiorno e vagabondare senza meta per la città produce soltanto depressione. Invece stare in classe è sempre un arricchimento, uno stimolo, sia culturale che esistenziale. Condividere con gli altri un mondo, questa è la ricchezza della scuola”» (a Maddalena Messeri) • «È il maggio 2015 quando tra le pagine di Repubblica compare un suo articolo dal titolo inequivocabile: “Ho inventato la Buona Scuola ma non convinco i colleghi“. Nel commento Lodoli svela di aver lavorato alla riforma e di averne addirittura coniato lui stesso il nome, poi usato dal premier a mo’ di hastag (#labuonascuola, appunto). Sottolinea gli aspetti a suo dire positivi, su tutti i 500 euro per la formazione dei professori e l’assunzione di decine di migliaia di precari. Un’opinione che però non fa breccia tra gli altri docenti, la cui opera di convincimento – scrive Lodoli – non produce alcun effetto. Anzi, il commento si chiude con la battuta di un collega che lo consiglia caldamente di cambiare il nome e di chiamarla “la Buona Sòla”» (Andrea Picardi) • Nel 2016 candidato alle amministrative a Roma nella lista civica a sostegno di Roberto Giachetti. Non eletto • Nel 2022, dopo 42 anni di insegnamento, è andato in pensione • Separato, due figli.
Critica «Quando ha scritto Diario di un millennio che fugge, Lodoli doveva avere ventisei o ventisette anni: l’età, oggi, di un adolescente; e il libro ha la perfezione, l’assolutezza, la crudeltà, la disperazione dei libri degli adolescenti. Come loro, Lodoli ha chiesto tutto alla letteratura; e ha avuto tutto in dono da lei...» (Pietro Citati) • «Si presentò fra i cosiddetti narratori degli anni Ottanta, che partirono in gruppo foltissimo, come i ciclisti all’inizio della gara, e di cui pochi ritroviamo in volata, con un capitale che lo distingueva: l’ambizione al romanzo esistenziale» (Giuseppe Leonelli).