24 ottobre 2023
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Biografia di Pietro Sermonti
Pietro Sermonti, nato a Roma il 25 ottobre 1971 (52 anni). Attore. «Fino ai vent’anni ho giocato a pallone, poi ho continuato a farlo con altri mezzi» • Secondo dei tre figli di Vittorio Sermonti (1929-2016), scrittore e celebre esegeta di Dante, e Samaritana Rattazzi, figlia di Susanna Agnelli e del conte Urbano Rattazzi. «Il mio babbo ha conosciuto mia mamma perché era andato a casa di mia madre a far ripetizioni ai suoi fratelli piccoli, che non spiccavano per essere dei grandi studiosi. Mia mamma ha visto quest’uomo di una certa età entrare molto elegante – lui sostiene – in questa casa, e dice di essersene perdutamente innamorata, lei ventenne, di lui quarantenne» (a Stefania Ulivi). Due sorelle: una maggiore, Maria, morta ad appena quattro anni e mezzo per una malattia congenita, e una minore, Anna, laureatasi prima in Storia dell’arte e Archeologia e poi in Fisioterapia. «La mia famiglia era segnata dalla morte di mia sorella. Io ero piccolo, e non ho ricordi precisi. Ma quel senso di solitudine mi è rimasto dentro, come le scatole nere degli aerei che le sonde vanno a ripescare in fondo al mare. Ci fai i conti, ma non li chiudi mai» (a Federica Furino). Assai modesto il suo profitto scolastico, al prestigioso Lycée Chateaubriand di Roma. «Ho fatto ripetizioni per un certo numero di anni con scarsissimi, scarsissimi risultati, tranne quello di divertirmi moltissimo, perché facevo ripetizioni con un paio di ragazzi che facilmente scartavano dallo studio, e soprattutto giocavamo moltissimo a battaglia navale, a Trivial… Infatti mi hanno bocciato quattro volte. Non è uno scherzo: io facevo la scuola francese, e gli italiani che facevano la scuola francese erano anche costretti a fare gli esami della scuola italiana, cioè quelli di quinta elementare e poi di terza media, per cui io in un anno, quando avevo tredici anni, sono stato bocciato nel giro di una settimana due volte, prima alla scuola francese e poi all’esame di terza media. Questo ha gettato nello sconforto soprattutto mia madre. Mio padre invece mi disse, con grande saggezza: “Guarda, adesso ti sembra una tragedia: tu hai tredici anni e devi fare un anno in più, è una grande distanza… Vedrai che fra vent’anni neanche te ne ricorderai più”. Me lo ricordo perché poi invece mi hanno bocciato pure l’anno dopo. […] Il penultimo anno mi hanno ribocciato, però sono fuggito, sono andato a giocare a pallone a Torino, non ho fatto l’ultimo anno e ho fatto la maturità a Nizza. […] Poi peraltro io mi sono quasi laureato in Scienze politiche con indirizzo storico-politico, ma ho mollato per vanità». Grande passione per il calcio, sin da piccolo. «Ho dovuto imparare a gestire presto la solitudine, per via di mia sorella che impegnava i miei a tempo pieno. Il mio migliore amico era il pallone» (a Solange Savagnone). «Da bambino ero timidissimo, ma in campo col numero 10 ero un leader. A 13 anni, mentre i miei amici andavano in vacanza, io stavo con il Tor di Quinto in ritiro. Mia nonna Susanna Agnelli pensava fossi pazzo…». «Ed ero niente male. Numero 10, discepolo di Platini, uno dei più grandi artisti del ’900, niente da invidiare a Nureev o Zidane e De Niro. […] Mio padre era il mio più grande tifoso, sognava di vedermi giocare. A 19 anni ho smesso con la scusa di un incidente. Ero pigro, viziato, vanesio. Non avevo la tigna e neppure il corpo giusto. La fantasia c’era, ma non bastava più. Un amico mi disse che fisicamente ero meglio come lanciatore di coriandoli che come giocatore nelle giovanili della Juventus. Però ero bravo» (a Margherita Tamburrino). «Soffrivo di pubalgia, come il mio idolo Michel Platini. Naturalmente l’ho vissuta come un segno. Erano gli anni ’80, e sono stato una delle prime vittime del 4-4-2» (ad Aldo Fittante). «Sono stato un figlio mediocre, arrabbiato, viziato e non affettuoso. Non avevo risolto i miei conflitti» (a Tiziana Leone). «Non ero una persona particolarmente attendibile: ero discontinuo nei rapporti, bevacchiavo, ero viziosetto, giocavo ai cavalli e a tutto quello cui si può giocare… Nel frattempo sono rinsavito». Dopo aver rinunciato al sogno di diventare calciatore professionista, si dedicò agli studi di regia e recitazione, prima in Italia e poi negli Stati Uniti, debuttando a teatro nel 1996, diretto da Luca Ronconi in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana tratto da Gadda, e al cinema nel 1998, nel drammatico Piccole anime di Giacomo Ciarrapico. «Ho iniziato questo mestiere tardi e per caso. In estrema sintesi: facevo l’assistente alla regia per uno spettacolo di Čechov, Il gabbiano, un attore era in ritardo e sono andato in scena al suo posto. Lì ho avuto la netta percezione – a livello di corpo, perché è tutto fisico quello che sento – che ero un uomo molto più sincero quando recitavo» (a Chiara Oltolini). «“Ho lavorato con Luca Ronconi e un Picchio Favino all’inizio della carriera. […] Una delle esperienze più incredibili della mia vita: a quel tempo ero assistente alla regia di Cristina Pezzoli, per caso parlo con l’assistente di Ronconi per capire come poter entrare all’Accademia; in quel momento stavano allestendo il Pasticciaccio e cercavano giovani e aitanti romani. Preso. All’improvviso mi sono trovato in mezzo a tutti attori usciti dall’Accademia, alle prese con uno spettacolo monumentale di cinque ore e passa”. Serie A. “Una meraviglia, in quelle cinque ore accadeva di tutto: c’era chi mangiava, chi andava via e tornava, magari scoppiava una rissa e poi si fumava una canna; ma la vera magia si è materializzata nell’ascoltare Ronconi alla prima lettura: per cinque ore e un quarto ha letto e interpretato tutti i personaggi”. Si sentiva in difficoltà? “(Stupito). Difficoltà? Io mi consideravo un abusivo, uno scappato di casa: prima di entrare in scena stavo svenendo”. Metafora? “Macché! Eravamo al Teatro Argentina di Roma e, quando mi sono accorto del sold out, mi è preso uno svarione: non ero pronto”» (Alessandro Ferrucci). La madre, intervistata da Stefano Lorenzetto per il Corriere della Sera: «Per un mese […] non ci siamo parlati. Fu quando, a due esami dalla laurea in Scienze politiche, mollò tutto per fare l’attore. Mi arrivò un plico giallo con dentro la locandina della commedia Piccole anime e una lettera: “Se vuoi venire a vedermi in teatro al Testaccio, siediti in ultima fila, altrimenti m’impappino”. Mi misi nella prima». «Si piazzò in prima e fece bene, anche perché il numero di spettatori era inferiore al numero di attori sul palco». «Sono passato dal teatro alla televisione dopo un momento preciso: studiavo recitazione teatrale a New York, sono tornato in Italia per uno spettacolo, e, quando sarei dovuto tornare, c’è stato l’attentato alle Torri Gemelle. Da allora non me la sono più sentita, di tornare. E nel frattempo […] ho avuto l’audizione per Un medico in famiglia» (a Riccardo Burgazzi). Fu proprio la popolare serie di Rai 1 a decretare la notorietà e il successo di Sermonti presso il grande pubblico. «Sermonti interpretava il dottorino Guido Zanin, il medico che tutti vorrebbero incontrare una volta nella vita: dolce, simpatico, comprensivo. Lasciare […] è stata una sua scelta, mai rinnegata. […] “Abbandonare Zanin non era facile. Per molti la mia è stata una scelta di grande coraggio. Per me, la logica conseguenza di quello che veramente avrei voluto fare di questo lavoro e della mia vita. Per compiere un passo indietro nella mia carriera, buttandomi dal treno in corsa, mi è stato di grande aiuto lo yoga. […] Ho scoperto che la popolarità non fa per me. Mi spiazzava addirittura essere al centro dell’attenzione”» (Luca Giordano). «Tutti sapevano chi ero, e l’unico che non lo sapeva più ero io. Ho iniziato una lunga serie di pellegrinaggi, ho fatto silenzi, meditazioni, in India e nella foresta nera, esperienze spirituali fortissime, mi sono ripulito da tutto quello che è ambizione malata, desiderio: in quei posti si impara a capire chi si è» (a Fulvia Caprara). «A un certo punto ho chiesto di far morire il mio personaggio della serie Un medico in famiglia proprio per non rischiare che poi, ogni qual volta mi volessi proporre per un altro tipo di carattere, mi dicessero: “No, grazie: tu sei il medico e devi restare il medico”». «Tra una serie e l’altra mi offrivano di tutto. Poi, per un periodo, più niente». Partecipò quindi ad alcune produzioni cinematografiche (SoloMetro di Marco Cucurnia, Sweet Sweet Marja di Angelo Frezza, Amore, bugie & calcetto di Luca Lucini) e televisive, segnalandosi in particolare nelle tre stagioni della serie televisiva Boris (Fox, 2007-2010), nonché nella sua versione cinematografica Boris – Il film (2011), nei panni del «divo» Stanis La Rochelle, attore mediocre quanto vanesio. «Nella prima puntata pilota, girata in un giorno, Stanis era un attore cane, pessimo, che faceva un prete. Poi si è pensato che dovesse fare il medico, il dottor Giorgio: ai tempi ero una piccola popstar grazie al ruolo del dottor Guido Zanin, il parallelismo era perfetto, e l’idea di prendermi in giro mi sembrava la cosa più bella del mondo». «Boris ha cambiato la storia della tv. E anche un po’ la mia: mi ha salvato dal ruolo del fidanzatino romantico in cui Un medico in famiglia mi aveva incastrato. C’è un “prima” e un “dopo” Boris nella mia vita. E forse anche in quella degli altri». «Stanis La Rochelle nasce […] dall’osservazione di alcune persone che ho conosciuto. Certo, è un personaggio che non evolve, che non ha profondità… e purtroppo dopo di lui ho avuto solo richieste per recitare in commedie. Quindi ho sentito montare spontanea la necessità di esprimere altro, per esempio dandomi di nuovo al teatro, e in particolare a Čechov». Oltre a recitare in teatro (tra l’altro, nei panni dell’amante della protagonista di Dona Flor e i suoi due mariti e negli scarsi panni di uno spogliarellista improvvisato in The Full Monty – Il musical), Sermonti ha continuato a partecipare a varie produzioni televisive (Nero Wolfe, Tutto può succedere, Cops – Una banda di poliziotti, Bangla – La serie, Sono Lillo) e cinematografiche (Smetto quando voglio di Sydney Sibilia e relativi seguiti, Terapia di coppia per amanti e Uno di famiglia di Alessio Maria Federici, Bangla di Phaim Bhuiyan, Corro da te di Riccardo Milani, La caccia di Marco Bocci). Nel frattempo ha anche preso parte alla quarta stagione di Boris, distribuita su Disney+ nell’ottobre 2022. «L’aveva chiuso nel baule dei casomai. Poi, in una giornata di mezzo tra la fine del lockdown e le prime libertà promesse dall’estate 2020, alcuni ragazzini l’avevano fermato per strada: “Ma tu sei Stanis La Rochelle di Boris!”. Erano passati quasi 15 anni dalla puntata pilota e dodici dall’ultima andata in onda su Fox: che cosa stava succedendo? Succedeva che Netflix stava dando nuova vita e nuovo pubblico alla serie più rivoluzionaria della tv italiana. Per Pietro Sermonti era il tempo di aprire quel baule. Boris sarebbe tornato a furor di popolo dopo tre stagioni (e un film). […] E dopo il ritorno di Boris che cosa c’è? “Ci sono ruoli un po’ più drammatici: sto provando a essere il Max Tortora di me stesso. Perché la mia indole è amletica, ma, come tutti i malinconici, esplodo e faccio il pazzo alla Stanis”» (Oltolini) • Profondo e duraturo il dolore per la morte di suo padre, occorsa il 23 novembre 2016. «“Non sono l’unico ad aver perso il padre, ma il solo ad aver perso Vittorio Sermonti”. Che cosa è stato per lei? “Mi ha dato le chiavi per uscire dalla solitudine in cui vivevo da bambino: il senso del gioco, la sostanza magica che mi ha salvato. Credo sia per questo che prima ho giocato a calcio, poi sono finito a fare l’attore, che è un grande gioco fatto di trucco, di viaggi, di pause, di tribù dove si prendono cura di te”. […] Che altro le ha lasciato suo padre? “La sostanza di cui sono fatto. Le parole che uso. L’amore per i libri e per le storie da raccontare. E ore e ore di registrazioni della sua voce sparsa in una miriade di nastri”. […] Da sua madre, invece, che cosa ha ereditato? “Un senso del dovere prussiano, militaresco, che rivendico come insospettabile ingrediente della mia anima. Sono l’unico bambino al mondo a non aver saltato un giorno di scuola se non per malattia”» (Furino). «“Ero più felice a Santa Marinella col mio babbo piuttosto che dentro al ‘palazzo’”. A che età l’ha capito? “A 12 o 13 anni, quando ho deciso di diventare calciatore; d’estate ascoltavo i racconti dei miei cugini, poliglotti, che avevano viaggiato in tutto il mondo, mentre io no; io sapevo di avere un padre comunista, intellettuale e senza una lira, aspetto non ben visto, soprattutto dalla componente argentina di mia nonna”. E lei? “Sentivo questa distanza sulla mia pelle; (sorride) ho cantato Bandiera rossa seduto a tavola con la regina d’Olanda, oppure amavo il pallone perché la parola ‘compagni’ mi riempiva; (cambia tono) da ragazzo giocavo a Roma nel Tor di Quinto, il nostro sponsor era l’Unità, avevamo la bandiera sovietica dietro la porta e il presidente era Massimo Testa, capo del servizio d’ordine di Berlinguer. Per me non era una questione politica, ma fisica, emotiva, fisiologica: con loro mi sentivo a casa, con gli altri in trasferta”» (Ferrucci). «Il fatto di essere un “meticcio”, di appartenere a una famiglia di “signori del vapore” e di essere figlio di un grande intellettuale, credo sia la mia fortuna. Tolti tutti gli attriti tipici dell’adolescenza, con le sue asprezze e spigolosità, ovvero una volta fatta pace col mio sangue, ho davvero cominciato ad apprezzare il patrimonio culturale che avevo a disposizione». «Certo, rispetto ai miei cugini, sento di essere un po’ un bastardello» • Celibe, senza figli. Nell’ottobre 2022 ha dichiarato: «Sono innamorato. Grazie alla mia compagna è caduto un muro che ho avuto solido per tutta la vita. E magari fra vent’anni sono a giocare a ping pong con mio figlio» • Fervente juventino: «L’amore della mia vita è la Juventus». «Molti pensano che io sia della Juve per appartenenza familiare. È vero, ma lo devo a mio padre Vittorio Sermonti, che con gli Agnelli non c’entra niente» (a Timothy Ormezzano) • «All’alba dei miei vent’anni scrissi un libro che s’intitolava Il calciatore gentiluomo, che fortunatamente ho dato alle fiamme, ispirato un po’ a Buñuel, un po’ a Flaiano, un po’ ad Alvaro Vitali» • «La mia vita gira intorno al teatro, al cinema e alla Juventus. […] E poi passerei le giornate a leggere e a praticare surf, uno sport che aiuta a conoscersi meglio e a superare le proprie paure» • «Qual è un insegnamento che le ha trasmesso suo padre, il grande scrittore Vittorio Sermonti? […] “‘Ricordati, figlio mio: il mondo è diviso in due categorie: c’è chi sta male e vuole stare meglio, e chi sta male e vuole che tu stia come lui’. Per questo mi tengo lontano dai social network: troppa negatività”» (Annalia Venezia). «Sono un tipo riservato. Trovo molto faticoso parlare di me. Sono preciso al limite della pignoleria, pieno di difetti, ma anche molto giocherellone e sensibile, non solo nei confronti dell’altro sesso». «Sono profondamente solitario e malinconico, la mia presunta brillantezza è solo apparente» • «Se non mi piacesse piacere, almeno un po’, non potrei fare questo mestiere. Qualunque sia lo stile, chi fa questo lavoro parte da un grande bisogno di accettazione. Io l’ho declinato prima in una forma sportiva, con il calcio, ma alla base, anche allora, c’era il bisogno di essere visto». «Grazie a Dio, il mio popstarismo si è diluito nel tempo, anche perché ho perso tutti i capelli e non sono attraente come vent’anni fa. […] Oggi sono un uomo di mezza età più interessante» • «Sermonti ha un talento speciale: l’umanità. Da Boris alle commedie, […] regala ai personaggi il suo sguardo comprensivo e ironico» (Silvia Fumarola) • «Ti senti più legato al palcoscenico o allo schermo? “Al palcoscenico, senz’ombra di dubbio. Quando da giovane ho lavorato in teatro come aiuto regista, guardavo agli attori come a dei supereroi. In teatro si è molto più onesti che nella vita (è una cosa che ho sperimentato provando un pezzo de Il gabbiano di Čechov): si è molto più a fuoco, ed è una sensazione intossicante. È la consapevolezza di dire qualcosa che è sempre valido, che va oltre te stesso. Tra l’altro, mi piace considerarmi anche un ‘autore dormiente’: da un lato mi piacerebbe uscire, prima o poi, con un’‘opera prima’, dall’altro adotto come scusa il fatto che lavoro come attore proprio per mettere le mani avanti e dire che non ho tempo di scrivere. Forse alla fine resterò l’unico italiano a non aver scritto la sua opera prima… Ma del resto c’è tempo: in Italia si è giovani promettenti fino ai 72 anni!”» (Burgazzi) • «Cosa significa essere attore? “Per me è una copertura: ho 50 anni, non sono cresciuto con il mito della professione, il mio sogno era fare il calciatore. Per me il mestiere dell’attore è una sintesi felice tra il calcio, lo sport, il corpo, la pioggia di parole di mio padre”» (Caprara) • «Nell’animo […] sarò un calciatore per tutta la vita, e se dovessi rinascere mi piacerebbe diventare un campione» • «“La mia vita non è molto lontana dai miei sogni. Uno di questi è raccontare delle belle storie girate e recitate bene. Un altro sarebbe dedicarmi a uno sport meglio che posso, e non escludo che possa essere il ping pong! Chi è giocatore dentro lo rimane per sempre, fino alla morte. Giocare salverà il mondo, ed è curioso che per gli inglesi i verbi recitare, giocare e suonare si traducano con la stessa parola: ‘play’”. […] Cosa spera che accada di bello e impossibile nella sua vita? “Che prima o poi la Juventus vinca la Champions League. Se dovessi scegliere tra un David di Donatello come migliore attore e la Coppa dei Campioni, non avrei dubbi: sarebbe un’emozione imparagonabile. Ma è un falso problema, perché non accadrà nessuna delle due cose”» (Savagnone) • «Ho già deciso l’epitaffio della mia tomba, l’ho sognato: […] “Non tirò mai in porta con un compagno piazzato meglio di lui”. E poi c’è anche la parola “compagno”».