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 2023  novembre 28 Martedì calendario

L’intelligenza artificiale impara l’arte. Il fotoreporter Michael Christopher Brown: “Deve arrivare dove lo scatto non può”

Nel mondo della fotografia, Michael Christopher Brown è visto come una sorta di pioniere. È celebre, oltre che per essere un ottimo fotoreporter nel senso più classico del termine, per essere stato uno dei primi a immortalare scenari di guerra col suo iPhone. Questo primato gli consentì l’accesso alla più prestigiosa delle agenzie fotografiche, la Magnum. Brown è stato ospite del Vogue Photo Festival, l’evento milanese che (dal 16 al 19 novembre) si è interrogato sui rischi e i pericoli – ma soprattutto sulle opportunità – dell’intelligenza artificiale in campo fotografico.
Va da sé che, da buon pioniere, Brown sta oggi facendo esperimenti proprio con l’IA: secondo lui, questa fase storica è un gioioso passaggio di sperimentazione che nulla toglie, semmai aggiunge, alla fotografia. «Semplicemente, finché saremo chiari su ciò che creiamo e su come lo creiamo, non credo che qualcosa sia necessariamente fuori dai limiti. Il fatto è che la fotografia – ci spiega – è un’arte molto giovane. Non esiste da troppi secoli e perciò la quantità di generi all’interno del suo mondo è sì vasta, ma non così ampia e accettata come, ad esempio, lo è nel campo della scrittura. Se sei uno scrittore e sperimenti vari generi, non accade nulla. Ma se sei un fotografo e sperimenti, apriti cielo».
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L’artista, nato negli Stati Uniti nel ’78, ci racconta di aver sperimentato con l’IA per circa un anno e mezzo, ma che solo quest’anno si è sentito pronto per creare delle vere e proprie immagini con facilità. «Parlo di immagini che sembrano reali. È tutto spaventoso, lo so, ma bisogna ribadirlo: non si tratta di fotografie. Questo è il punto in cui si concentra la maggior parte delle paure. L’IA dicono che sostituirà la fotografia, ma non potrà mai farlo: è un’altra cosa. È sperimentazione che, tra l’altro, c’è sempre stata. Avete presente il cowboy di Richard Prince?» ci domanda.
Untitled (cowboy) è una decostruzione di un archetipo americano, cioè i primi pionieri, e l’opera non è che una copia (la fotografia) di una copia (la pubblicità) di un mito (il cowboy) nonché un invito a riflettere, da parte di chi l’ha creata, sull’attrazione della nostra cultura per le immagini piuttosto che per le esperienze di vita vissute. «Penso che gran parte del timore sia la simmetria che l’IA creerà, ma non credo si arrivi a chissà quale corto circuito e si tratterà solo di capire chi è che fotografa e chi crea invece l’immagine. Se sei un artista – questo è il punto di Brown – allora la tua garanzia è la credibilità, l’integrità, la tua entità come persone. E a quel punto ci arrivi semplicemente lavorando negli anni e creando un lavoro che sia per l’appunto credibile. Il modo in cui creo le immagini con l’IA non è reale, ma è vero».
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Dunque quello che ai più, ne conveniamo, parrebbe uno scioglilingua, è in realtà il punto cruciale di tutto: «Una cosa è vera perché esiste, perché si può andare a vederla. Il fatto raccontato è esistito nella realtà? Magari no, ma la differenziazione tra ciò che si dice e ciò che è il risultato di ciò che viene detto, è l’unica cosa che conta. È sempre stato così. Non mi sembra che le cose stiano cambiando. E, ci tengo a ripeterlo, finché si è chiari su ciò che si sta facendo, va bene tutto».
Al momento, Brown sta lavorando in Congo e questo suo progetto africano serve a spiegarci meglio la differenza fra reale e vero. «Pochi giorni fa ero lì e, al momento, dovete sapere che ci sono dei mercenari stranieri, assunti dal governo congolese. Noi siamo arrivati al porto, siamo scesi dal traghetto e saliti su dei camion. Passando accanto a questi mercenari – racconta il fotografo – ho notato che stavano caricando delle armi da un’imbarcazione. Volevo fotografarli, ma ho avuto paura».
Ora, per essere chiari, Brown, non avendola scattata, non potrà mai ricreare quell’immagine e sta tutto qui, il punto: quella che eventualmente ricreerà sarà sempre e comunque un’altra cosa. A rimanere vivo, quindi reale, sarà però ciò che ha visto. «A mio avviso il modo migliore per usare l’IA è quello di inserirla dove la fotografia non può arrivare» spiega, e i rischi, certo, ci sono e sono evidenti. L’anno scorso, per dirne una, i giudici di un concorso fotografico non sono stati in grado di capire la differenza tra i due tipi di immagine. E Adobe, ultimamente, si è messo a vendere fotografie della guerra a Gaza che nessuno ha mai scattato.
Il prossimo passo, secondo Brown, è tutto da scrivere. «Molti fotografi stanno sperimentando ma non rendono ancora pubblici i risultati perché l’IA è fortemente stigmatizzata. Io stesso – confessa – sto lavorando a un qualcosa, diciamo a un tipo di immagine, che non sono ancora pronto a condividere. Si tratta di lavori diversi rispetto ai miei soliti: fanno parte di un immaginario catartico e sono più vicini al mondo dell’arte. Sia chiaro, la mia carriera è quella del fotografo, almeno finora. Il lavoro che sto facendo con l’IA è pura sperimentazione».