la Repubblica, 28 novembre 2023
Intervista a Paul Lynch
Paul Lynch, irlandese, 46 anni, già paragonato a McCarthy, Faulkner, Dostoevskij e Beckett per la sua prosa epica e poetica, fresco vincitore del Booker Prize 2023 con lo struggente romanzo “Prophet Song”, quando ha deciso di diventare scrittore?
«In Sicilia. Autunno 2007».
Ah, ci racconti.
«Sono giornalista, in vacanza a Lipari, in taxi verso l’hotel. Guardo il mar Tirreno. All’improvviso, un’epifania, fortissima. Capisco che la mia vita sino ad allora è stata una menzogna. Allora mi convinco: sarò uno scrittore. In un attimo, tutte le mie paure evaporano».
E si è messo subito al lavoro?
«Certo, un racconto. L’avevo in testa da mesi, ma senza mai l’audacia di buttarlo giù. La scrittura è fallimento, sempre: devi darti il coraggio e il permesso di sbagliare».
Di che racconto si tratta?
«È rimasto nel cassetto. Non è il momento di pubblicarlo». ?
Ma ha appena vinto il premio più prestigioso al mondo in lingua inglese.
«Vedremo. Era solo una prova, una bozza...».
Il Booker cambia la vita? Più pressione? Maggiori e opprimenti aspettative?
«Sono inevitabili, ma non è un problema. Sono una persona molto autentica: è l’unica via per trovare la voce più profonda in noi. Come nel Vangelo apocrifo di Tommaso: “Se fai accadere ciò che è dentro di te, questo ti salverà. Non fai accadere ciò che è in te, questo ti ucciderà”. Mi basta rimanere da solo con le mie frasi e sono a posto. Piuttosto, il problema è un altro».
Quale?
«L’anno prossimo dovrò viaggiare parecchio per Prophet Song – in Italia uscirà come Il canto del profeta nel marzo 2024 per 66thand2nd, come tutti i suoi libri, ndr – ma io sono una persona molto riservata, metodica. Ogni giorno scrivo dalle 10 alle 14, in due sessioni da 90 minuti, che mi sfiniscono. Dopo, il massimo che riesco a fare è leggere, prendere i miei due figli a scuola e fare la spesa».
Che cos’è la letteratura per lei? Forse l’unico mezzo per arrivare alla verità, in un mondo sempre più pervaso da estremismi e disinformazione, come scolpisce nel “Canto del profeta”?
«Un romanziere cerca sempre verità eterne. Tiene uno specchio magico sul mondo. A quel punto, capitano piccoli miracoli: individuiamo immagini, simboli, metafore che ci raccontano chi siamo. È un processo mistico, quasi religioso. Ed è cruciale nella nostra epoca di fracasso costante, che ci manda costantemente alla deriva. Ma tutti noi conserviamo una voce silenziosa in noi, una coscienza superiore, l’autenticità che ci salva dallo smarrimento. Yeats ci aveva avvertito: “Quando il falco non può udire il falconiere, le cose cadono a pezzi”».
In “Prophet Song” le cose cadono davvero in pezzi: la sua Irlanda è tremenda e claustrofobica, conquistata dall’estrema destra, sul precipizio del totalitarismo, mentre la democrazia e la libertà stanno svanendo.
«È arduo non essere pessimisti oggi. Siamo in un’epoca nuova, dai risvolti ignoti, in evidente disfacimento, soprattutto in Europa. Di recente, ho riletto Steppenwolf (Il lupo della steppa) di Hermann Hesse. Mi ha sconvolto».
Perché?
«Lo scoprii nel 1998. Allora pensai, sollevato: per fortuna, è tutto passato. Qualche tempo fa l’ho ripreso: la Germania pre-nazista, la xenofobia, l’antisemitismo… all’improvviso, di quel libro, tutto era diventato così attuale. Sono rabbrividito».
Solo la settimana scorsa in Irlanda abbiamo visto l’estrema destra e i razzisti assediare Dublino e lanciare la caccia al migrante.
«È stata una sveglia per tutti, non solo nel mio Paese. Allo stesso tempo, la crisi economica e sociale scatena i peggiori istinti: il mio mutuo è salito del 75%. Viviamo in un’epoca in cui anche la classe media soffre ogni giorno».
Terra fertile per nuovi, devastanti estremismi.
«Già. La civilizzazione è un ideale. Ma il tribalismo è un istinto. E gli istinti sono molto più potenti. Lo spirito del tempo sta cambiando. Basta che cada un Paese nel precipizio, e può succedere di tutto. Come in Germania negli anni Trenta».
Nel “Canto del Profeta”, lei forgia il concetto di “empatia radicale”.
«Ossia, immedesimarsi nell’altro, capire perché, per esempio, migliaia di persone rischiano la vita su un barcone. Un dilemma simile capita alla protagonista del mio romanzo, Ellish Stack, che si ritrova da sola con quattro figli dopo che lo Stato gli ha rapito il marito. Insieme alla letteratura, solo l’empatia può salvarci».
La lotta per la sopravvivenza è chiave anche negli altri suoi quattro straordinari romanzi “Oltremare”, l’esordio “Cielo Rosso”, “Neve nera” e “Grace”.
«Esatto. È il mio tema principale: anime che inseguono la dignità, la fine della sofferenza. È il senso della vita: dare senso alle nostre esistenze in un mondo che non sembra avere più tempo per noi. Oggi il nostro spirito si pone domande cui le religioni non riescono più a rispondere e tantomeno la società attuale. Solo la letteratura può».
Nell’ultimo anno anche lei ha lottato: il Long Covid, un divorzio, un cancro al rene fortunatamente superato.
«Noi scrittori siamo persone sensibili. Il dolore ci fa esprimere meglio. Ma la cosa più importante è che... sì, sono ancora qui».