la Repubblica, 28 novembre 2023
Così il doppio turno cambiò la politica
Di quei giorni di trent’anni fa Antonio Bassolino ricorda la grande stanchezza. «Fu una campagna elettorale senza paragoni, bisognava convincere non solo i tuoi, ma anche la borghesia di Posillipo e Chiaia, e i poveri di Barra, tentati allora dalle sirene della destra. Occorreva conquistarsi i voti uno per uno, e io non partivo favorito. Decisi di candidarmi solo dopo che il Movimento sociale scelse Alessandra Mussolini, a una proposta radicale occorreva contrapporne un’altra altrettanto netta. Napoli – ricorda l’ex Pci che fu sindaco, ministro e governatore della Campania – era in condizioni penose. La mattina andavo davanti alle fabbriche (l’Italsider aveva appena chiuso), e lì mi sentivo sicuro. C’erano continui duelli tv. La sera, invece, entravo nelle case dei napoletani, di ogni estrazione, e trovavo 50-70 persone che mi martellavano con le loro domande. Era la prova più difficile. Furono elezioni mediatiche, ma anche e soprattutto territoriali: per la prima volta ci dovevi mettere concretamente la faccia».
Trent’anni fa, tra il 21 novembre, primo turno, e il 5 dicembre, il ballottaggio, si tennero le amministrative del bipolarismo che sancirono l’elezione di una generazione di sindaci progressisti: Francesco Rutelli a Roma, Antonio Bassolino a Napoli, Leoluca Orlando a Palermo, Massimo Cacciari a Venezia, Adriano Sansa a Genova, Riccardo Illy a Trieste. Il 1993 è l’anno delle prime elezioni dirette dei sindaci, a giugno Valentino Castellani era stato eletto sindaco di Torino, Enzo Bianco a Catania. «La sinistra trionfa, battuti Msi e Lega», titolavano i giornali. Tangentopoli aveva fatto esplodere la Prima Repubblica. Ogni giorno c’era una retata. La Dc a luglio deliberava la sua fine. I socialisti, l’altro grande partito degli anni Ottanta, a Milano non presero nemmeno un consigliere. Provò ad approfittarne il Msi, estraneo alla corruzione.
Le stragi del ’92 avevano minato la democrazia, e quelle amministrative furono il grande test elettorale dopo un anno drammatico. Le regole nuove sancivano un bisogno. Un patto con i cittadini su basi rinnovate.
«Una riforma che ha cambiato la vita delle città», riflette Enzo Bianco. «Le amministrazioni, prima, avevano in media l’orizzonte temporale di undici mesi, a Catania il ritmo era di una giunta ogni cinque mesi. Il sindaco, prima del ’93, si sedeva sulla sua poltrona e se ne andava, senza alcuna progettualità. Ricordate cos’era Piazza Plebiscito, a Napoli, o piazza Università a Catania? Un enorme deposito di auto. I sindaci non avevano la forza per imporre qualsiasi decisione, tutto cambia quando vengono chiamati a rispondere non al consigliere comunale ma all’opinione pubblica. Comincia l’era della pianificazione, si iniziano a spendere i fondi europei. Credo sia una delle poche riforme che abbia davvero inciso sulla qualità della vita della gente. Prima manco si conosceva il nome del sindaco, che ha l’immediata percezione del gradimento di un provvedimento: lo capivo già al bar, dallo sguardo di un cameriere».
Per la prima volta è destra contro sinistra. A Napoli c’è Alessandra Mussolini, a Roma c’è Gianfranco Fini, con tanto di endorsement di Silvio Berlusconi. Salderadici a destra, contro candidati dei progressisti che, fatta eccezione per Bassolino, sono espressione di una cultura più larga di quella maggioritaria ex comunista. E sono giovani, quarantenni. Rutelli è un verde ex radicale. Bianco un manager repubblicano. Castellani un professore. Illy un imprenditore. Cacciari un filosofo. Orlando un intellettuale che ha rotto con la Dc, fondando un movimento, la Rete, che l’anno prima è entrato in Parlamento. Il Paese è a pezzi. La sinistra, dopo il crollo del Muro, da rifondare.
Le speranze di allora sono andate deluse?
«Il Paese ha abbracciato una grande alternativa, un fatto positivo che purtroppo non ha evitato la crisi della democrazia che si è venuta a determinare nel nostro Paese», ragiona a voce alta Leoluca Orlando. «Quello dei sindaci eletti direttamente fu indubbiamente un grande modello ma allo stesso tempo l’avvento del maggioritario e l’abolizione delle preferenze determinarono il trionfo del leaderismo e delle correnti.
Non a caso – dice l’ex sindaco di Palermo – la Rete si oppose al referendum per il maggioritario: quella svolta, in un momento in cui brillava la stella dei sindaci e delle buone amministrazioni, alla fine promosse una classe politica composta da seconde file».
Chi lo interpretò meglio di tutti? «Berlusconi», ne è certo Orlando. «Mise la sua faccia davanti a tutti. Gli altri, anche nei manifesti, erano comprimari. Il Cavaliere è giunto nel 2022 a imporre in un collegio di Trapani la sua compagna Marta Fascina che in Sicilia non è mai venuta in campagna elettorale e che confondeva Marsala con Mazara del Vallo. I sindaci, dall’alto della loro forza, tentarono di diventare partito, con Centocittà. Ma fu un errore, perché noi dovevamo contaminare la politica con il nostro esempio positivo, non cercare di entrare a far parte di quel sistema entrando nel Palazzo».
Ma la modernità fu subito evidente. «Io annunciai gli assessori prima del ballottaggio, una novità dirompente», ricorda Bassolino. «E feci l’ultimo comizio con Vera Lombardi e Francesco De Martino, che non erano del mio partito». «La conquista di cui sono più orgoglioso? Aver dato ai palermitani – chiarisce Orlando la possibilità di mandare al Comune me e Antonino Caponnetto. In Sicilia l’elezione diretta, anticipata da una legge regionale del ’92, fu uno degli strumenti della rivolta popolare contro la mafia dopo le stragi. La mia elezione arrivò due mesi dopo l’omicidio di padre Puglisi».
La vittoria dei sindaci progressisti spalancò l’illusione che si potesse andare al governo in carrozza. «E la lira fa festa» fu il titolo diRepubblica martedì 7 dicembre. Sembrava fatta. Invece quattro mesi dopo ci pensò Berlusconi a scompaginare i piani.
«Oggi l’elezione diretta è purtroppo una memoria che inquieta», spiega Orlando. «C’è una crisi della democrazia che non supereremo senza una riforma dei partiti. Il correntismo, con Meloni, è stato solo sostituito dal sorellismo e dal cognatismo», è la sua conclusione amara.