La Stampa, 28 novembre 2023
Intervista a Marco Risi
Che cosa c’è di bello nella vecchiaia? Nulla. Lo diceva Dino Risi e lo dice, citandolo, il figlio Marco che, ieri al Tff, ha presentato “Il punto di rugiada” (dall’11 gennaio nei cinema con Fandango) cronaca, con sorprese, dell’incontro tra due ragazzi e una pattuglia di anziani, ospiti di una casa di riposo: «Mio padre ripeteva sempre “che cosa c’è di bello se le ragazze non ti guardano più? Che cosa c’è di bello se gli amici man mano ti lasciano? Che cosa c’è di bello quando il telefono non suona più...?” Poi il telefono suonava, e la smetteva».
In questo film c’è tanto di lei, e non solo perché uno dei personaggi principali si chiama Dino. È così?
«È vero, c’è molto di me, mi piaceva parlare di questo Dino, che non a caso si chiama così. Forse è un film nostalgico, ci sono anche altri personaggi che hanno nomi di figure per me importanti, cui sono molto affezionato. C’è Mario, come Monicelli, c’è Federico, come Fellini, c’è Pietro, come Germi, mi sembra che siano un po’ dimenticati, volevo ricordarli».
Come vede la prospettiva della vecchiaia?
«Non mi riempie certo di gioia, di positivo non vedo granchè. Si avverte molto di più la fatica, le cose cambiano, io, per esempio, faccio lunghissime passeggiate, anche chilometri a piedi, ma insomma, non vedo tanti pregi».
Come è nata l’idea del film?
«Dall’incontro casuale con un classico rompiscatole, un signore che, una volta, alla fine di una proiezione, a un festival, mi aveva avvicinato per raccontarmi la sua esperienza di un anno in una casa di riposo, da ragazzo. Ci ho ripensato tanto, ho buttato giù una scaletta e l’ho proposta al produttore Domenico Procacci. Mi attirava la possibilità di assistere a questo scontro-incontro tra persone con traguardi finali opposti, per i vecchi è la morte, per i giovani la vita».
Il confronto tra generazioni è sempre stato complesso. Pensa che oggi sia diventato ancora più problematico?
«Mi sembra di si. Ho sempre notato che, quando due generazioni che non si conoscono entrano in contatto, c’è sempre, almeno all’inizio, una certa diffidenza».
Sul set ha diretto attori giovanissimi e altri di lungo corso, con gloriose esperienze teatrali alle spalle. Come è andata?
«La sceneggiatura è sempre la cosa più importante, lì dentro c’è tutto. Una volta Anthony Hopkins è stato ospite da Fabio Fazio, che gli ha chiesto “quante volte legge le sceneggiature dei suoi film, duecento?”. Lui ha risposto “no, almeno trecento, e sto attento a ogni virgola"».
Il film parla anche di eutanasia, l’ex-fotografo Dino (Massimo De Francovich) chiede a Carlo (Alessandro Fella) un kit di fine vita. Qual è la sua opinione sul tema?
«Mio padre Dino parlava di suicidio assistito già da quando avevo 12 anni, e non era una cosa bella. E ’ sempre stato molto lucido, fino alla fine, e ha sempre continuato a parlarne. Sono assolutamente favorevole alla liberalizzazione del diritto di scegliere di porre fine alla propria esistenza. Se si è ridotti allo stato vegetale, essere tenuti in vita mi sembra una tortura, in tanti pensano che farlo sia una buona azione, oppure che vada fatto perchè, magari in futuro, si troverà una cura. Non sono d’accordo. Se dovessi capitarmi, se dovessi trovarmi nella condizione di non poter decidere, ho già detto ai miei figli di procedere».
Alla fine del film ci sono cartelli riferiti alla pandemia e alle numerose vittime fra gli ospiti delle Rsa. Come ha vissuto quella fase?
«Forse non è bello dirlo, ma per me non è stato un periodo terribile. Mi piaceva stare a casa da solo. Ho letto due volte “La montagna incantata”, vedevo serie infinte in tre giorni, andavo a fare la spesa al mercato, non c’erano posti dove dover andare, si potevano fare cose per se stessi».
È stato autore di importanti film di denuncia. Tornerà ad esserlo?
«Dipende. Con Andrea Purgatori avevamo pensato a un film su Mino Pecorelli. Aveva fatto una bellissima puntata di “Atlantide”, e così pensavamo di scrivere un film, era il momento adatto».
Serie e film. Da che parte sta?
«Le serie danno la possibilità di raccontare meglio storie e personaggi, è un’esperienza che può dare qualcosa in più. E poi, certe volte, succede di vedere film di tre ore che avrebbero potuto benissimo durare la metà».
Che cosa sta preparando adesso?
«Un film sulla storia di un personaggio che torna in Ucraina e che non dovrebbe andare in guerra, ma invece...non posso dire di più».