La Stampa, 28 novembre 2023
Faccio la guerra al mio ego
Mi sono riletto, per recensire la ristampa adelphiana, L’arte del romanzo di Kundera: vorrei cominciare il ragionamento a partire da due frasi di quel libro, che non ricordavo più. «Il romanziere demolisce la casa della propria vita per costruire, con i mattoni, la casa del suo romanzo», dice la prima; e la seconda «un romanzo non è una confessione dell’autore, ma un’esplorazione di ciò che è la vita umana nella trappola che il mondo è diventato». Io penso, come Kundera, che scrivere un romanzo sia innanzitutto uno sforzo di conoscenza – e la prima cosa da valutare è che nessuno può mai dire la verità su se stesso. Tanto meno si è sinceri quanto più si pretende di restare attaccati alla prima persona diaristica: troppi, in questi tempi di esternazioni social, si proclamano migliori di altri perché sono “autentici” (è un tormentone dei concorrenti del Grande Fratello, contrapposto all’inevitabile «tu invece sei falso, fai delle strategie»). Ma la persona che dice “io” che ne sa per esempio del proprio inconscio? E che ne sa di tutto quel che si è dimenticato, o delle deformazioni che ha operato la sua memoria? Peggio, se da se stessi si passa alle persone care: quale moglie, quale padre o quale figlio potrebbe dire in coscienza di conoscere chi gli vive accanto? La confessione autobiografica, anche se fatta con le migliori intenzioni, è sempre uno spot per mettersi in buona luce; compresi i casi più astuti, quelli in cui si pretende di brillare mettendosi in pessima luce, giocando la carta del maledettismo.
Certo, la confessione è anche un referto: come un sogno raccontato allo psicologo, o la testimonianza di chi ha vissuto in prima persona un evento eccezionale – ma in quel caso assume il valore di un sintomo, che per avere senso necessita dell’interpretazione altrui. Il romanziere vuole lasciare un segno, non testimoniare un sintomo, e per far questo ha bisogno delle strategie. Deve rintracciare nel mondo alcune linee portanti di quella «trappola che il mondo è diventato», individuarvi delle strutture generali e utilizzare frammenti della propria vita per illustrarle in modo convincente. Mattoni per una costruzione, appunto. Come Proust con lo snobismo e la gelosia, o come Thomas Mann con la parabola borghese, o come Kafka col terrore che può ispirare un padre. Non importa se lo fa in prima o in terza persona, importa che l’analisi sia profonda e metta sulla bilancia (cosa che di solito non possono fare i saggi scientifici) l’esperienza esistenziale di chi scrive. Un romanzo è sempre (anche) un saggio messo in situazione, quindi non astratto ma pulsante di dubbi e di contraddizioni.
Il romanzo consente di fare una cosa che chiamerei la descrizione di una vita aumentata: una vita più coraggiosa e radicale di quella piena di compromessi che viviamo di solito, un buttarsi avanti, un vivere situazioni non comuni. È il lato avventuroso del romanzo, che adesso pare godere di clamoroso successo, se non fosse che gli eroi acchiappa -lettori sono quasi sempre degli stereotipi facilmente imitabili dall’intelligenza artificiale (gli sceneggiatori di Hollywood lo stanno imparando a proprie spese). Il romanzo che parte da se stessi ha invece il vantaggio di non avere bisogno di stereotipi (caso mai, qualche volta, di archetipi); quel che meglio conosciamo di noi stessi è ciò che ci manca, le nostre debolezze e le nostre rimozioni. Personali, individuali, credibili; il romanzo è la scienza dell’individuo. Gli stuntmen che inventiamo sono i nostri alter ego, quelli che vivono per noi le scene pericolose; così possiamo anche, ed è una delle felicità che la vita ci consente, liberarci senza dolore di noi stessi. Lo scrittore può permettersi di dialogare con un personaggio che gli somiglia, prenderlo in giro o provare vergogna nei suoi confronti. Perché non è lui, finalmente; soprattutto da vecchi, l’io diventa un personaggio assai noioso.
Felici quegli scrittori che possono conoscere il mondo prescindendo completamente dalle proprie esperienze (ma ce ne sono? Quanto conta la pedofilia di Carroll in Alice, o la guerra contro Hitler per gli hobbit di Tolkien, o la depressione di Salgari nei suoi tigrotti della Malesia?). La mia impressione è che stiamo vivendo in un mondo di dibattiti ciarlieri e di mutazioni nascoste, e che il compito del romanzo sia più che mai quello di non cedere alla facilità. Se i fantasmi che ci girano intorno fanno troppo casino, un criterio per decidere quali accogliere può essere il filtro dell’io – diamo voce a quelli che con noi sono più insistenti, quelli con cui non avremo mai finito di combattere. Se gli trasfondiamo il nostro sangue, magari qualcun altro li riconoscerà come propri. —