il Fatto Quotidiano, 28 novembre 2023
Lettera ad Einstein
“Vedo il compito degli ebrei nello sradicare il nazionalismo in tutti i Paesi. Per questo rifiuto anche il nazionalismo ebraico: dopo aver solcato il mondo per duemila anni con il nostro sangue e le nostre idee, non possiamo nuovamente limitarci, per diventare una nazioncina in un cantuccio arabo. Il nostro spirito è spirito del mondo”: con un curioso tempismo, Giuntina licenzia ora le Lettere sull’ebraismo di Stefan Zweig, scrittore, critico, editore, biografo – forse il più grande dopo Plutarco – e antisionista convinto, pur avendo deciso di lasciare il suo sterminato epistolario all’Università di Gerusalemme. “Ho fatto una selezione e, a parte alcuni letterati minori, esso comprende tutto l’essenziale della nostra epoca: Hauptmann, Rolland, Einstein, Freud, Maeterlinck, Herzl, Valéry, Rathenau, Richard Strauss, Joyce, Gorki, Mann… Credo che rappresenti una delle corrispondenze più interessanti di questo tempo”. Corre l’anno 1933 e il viennese vuole mettere in sicurezza il proprio tesoretto fuori dall’Austria, lontano dai primi roghi nazisti. Salvo poi pentirsene: “Chissà se questa università non sarà ‘arabizzata’ un giorno”.
Zweig (1881-1942) è un’anima erratica, profetica: rappresenta con lucidità e sofferenza lo spirito di quei tempi sciagurati, per gli ebrei soprattutto. Della sua collezione di oltre 25 mila lettere, questa raccolta ne presenta una selezione di 120 a 43 destinatari, molti dei quali illustri, come l’amico e collega Franz Werfel “dal respiro ardente”. Il filo rosso è appunto l’ebraismo: una questione di identità più che di radici perché (dice un’altra poetessa, l’Alda Merini) “l’unica radice che ho/ mi fa male”. Zweig la spiega così: “L’essere ebreo non mi opprime, non mi entusiasma, non mi tormenta e non mi separa: come il battito del mio cuore, lo sento quando ci penso, e non lo sento quando non ci penso”.
Stefan è un ammiratore del filosofo Martin Buber e lo pressa per farsi pubblicare il dramma biblico Jeremias su Der Jude, ma è poco ortodosso e fallisce nel tentativo di cantare “l’eterna sofferenza, l’eterna caduta ed elevazione, la forza che si dispiega dal destino” del popolo di Israel; ciononostante ottiene la possibilità di imbastire “un’inchiesta” sull’ebraismo degli autori tedeschi, a partire dal sodale Max Brod, uno “troppo impaziente. Vuole cambiare condizioni millenarie in un decennio”. Questi sono gli anni in cui l’intellettuale prende le distanze persino dal maestro, e suo caporedattore, Theodor Herzl, il padre del sionismo. “Internazionalismo e pacifismo” sono per Zweig il succo dell’identità ebraica, non altro: “L’ebraismo è fermento e legame di tutte le nazioni… Può esserci comunità anche senza terra, solo attraverso il sangue e lo spirito, la parola e la fede”. Al sogno di uno Stato ebraico Stefan antepone la realtà di una più fattibile convivenza in Europa, esortando i colleghi a sottoscrivere un appello pacifista nel 1918, agli sgoccioli della guerra: “Non spetterebbe a tutti noi prevenire l’indignazione antisemita? Non deve essere un manifesto sionista, ma solo un appello al riserbo, al rispetto degli affari tedeschi e austriaci: qualunque cosa venga vinta o persa adesso, la colpa per il tracollo sarà attribuita per secoli, in Germania, ai capi ebrei”. E infatti, già nel 1921, lo scrittore subodora il marcio di un Paese in cui “il problema ebraico scotta con tanta urgenza, mentre all’estero nessuno chiede della razza”. La situazione degenera e, dieci anni dopo, nella fu Austria felix molti manifestano contro gli intellettuali ebrei; il governo “dimentica” il funerale del “nostro più grande poeta” Arthur Schnitzler; il rettore e il ministro boicottano la conferenza di Albert Einstein; l’università oltraggia Sigmund Freud. A questi due Zweig torna a scrivere tra il 1936-38, quando sono tutti e tre esuli a Londra: al primo invia alcune novelle “poiché so del Vostro interesse per il problema ebraico”; col secondo si complimenta per aver presentato “la religione ebraica come in parte straniera e derivata”.
Per questa visione del mondo cosmopolita e laica, Zweig si attira diverse critiche: pure Hannah Arendt lo accusa di essere “impolitico” nonostante le tante battaglie – almeno intellettuali – contro il Terzo Reich, tra lettere e proclami che sfidano la censura e l’esilio da apolide: “Continuo a credere che non si possa combattere l’hitlerismo più efficacemente che scrivendo buoni libri” sostiene colui che è tra i primi a finire all’indice. Nel ’33 sente puzza di bruciato, non solo per i volumi al rogo, e cerca di sollevare una mobilitazione tra amici e colleghi come Romain Rolland: “In Germania siamo solo noi ebrei, tralasciando alcune rare eccezioni, a difendere la libertà, l’indipendenza… A parte Thomas Mann e Heinrich Mann, nessuno scrittore tedesco cristiano ha firmato! Per gran parte di loro il nostro boicottaggio, che sta già iniziando, sarà un enorme profitto (e lo sanno)”. Tra questi sciacalletti c’è anche il futuro premio Nobel Hermann Hesse. Non solo letterati ed editori, Zweig scrive compulsivamente a banchieri e artisti, professori e penalisti, scienziati e rabbini. Come quello di Rio de Janeiro – dove Stefan si è infine rifugiato – che lo invita per le festività di fine ’41. Ma l’ebreo errante è stanco e declina l’invito. Non vedrà più il rabbino, ma sarà quest’ultimo – il 24 febbraio 1942 – a celebrare il funerale del signore e della signora Zweig, suicidatisi due giorni prima.