la Repubblica, 28 novembre 2023
Intervista a James Lee Burke
James Lee Burke ha cominciato tardi a scrivere polizieschi, e in una fase di stanca della sua carriera di scrittore. Ma, afferma oggi con legittimo orgoglio, non esiste una storia che non sia anche una storia criminale. Sin dai tempi di Adamo ed Eva.
A ottantasette anni suonati, questo gentiluomo del Sud (nato nel Texas, vive nel Montana) è l’ultimo grande vecchio del noir americano. Non solo per il rispetto dovuto all’età – Burke è attivissimo, tutt’altro che attratto da prospettive di buen retiro – e nemmeno per il palmares – è l’unico che ha vinto per due volte l’Edgar Award, in pratica lo Strega del “giallo”.
Il fatto è che Burke continua a coltivare, grazie a una scrittura ricca e pittorica, alle trame complesse e mai prevedibili, al racconto dei paesaggi incendiari della Louisiana, quel nobile filone narrativo che interpreta il “crime” come specchio dei tempi e pretesto per analizzare una società contraddittoria e conflittuale. Un modo eccellente per raccontare gli stati americani del Sud, di oggi e di sempre. Con, in più, un’insospettabile vena poetica che si esprime, negli episodi più felici, attraverso digressioni che, se in apparenza allontanano dal “plot”, in realtà scavano nel profondo della natura umana e conducono il lettore a porsi la domande delle domande di ogni storia criminale: che cos’è il Male, dove nasce, perché ci attrae così tanto?
Non fa eccezione New Iberia Blues (Jimenez, traduzione di Gianluca Testani, pagg. 483, euro 22), un romanzo del 2019 incentrato su una serie di efferati omicidi a sfondo rituale che sconvolgono la contea in coincidenza con le riprese di un kolossal hollywoodiano. Burke, di solito restìo a concedere interviste, ha accettato di rispondere, via mail, ad alcune domande. Forse perché, ha precisato, ha un gran desiderio di tornare in Italia, dove è stato tanti anni fa: «Sono un appassionato archeologo», ha scritto, «mi piacerebbe scavare da qualche parte da voi».
Dave Robicheaux e Clete Purcell, i due poliziotti protagonisti di questo e degli altri romanzi della saga, per inciso, caratteri indimenticabili, conoscono benissimo la differenza fra l’ombra e la luce. Sono ragazzi tosti, ma non ci danno mai l’impressione di essere moralisti.
«Dipende dal fatto che entrambi sono “portatori di luce” (light bearers, il termine che si usa per definire Lucifero nella sua opera di divulgatore della conoscenza, ndt). Fissano le regole del gioco, e non perdono tempo a parlarne».
Tutte le storie di Dave e Clete sono ambientate in questa magica Louisiana del “bayou” Teche (il fiume), con i procioni, il pesce gatto, il gombo, la sua commistione di cultura europea, la musica cayun e il blues, il capitalismo e i retaggi contadini. Quanto c’è di reale, e quanto di fiabesco, in tutto questo?
«È tutto reale! Del resto, devo difendere la mia opera, no? Io credo che ogni artista debba ringraziare Dio per il dono del talento. Ogni artista, in cuor suo, sa che questo dono non nasce dentro di lui, viene da fuori. Il modo migliore per ricambiare è sforzarsi di rendere il mondo un posto migliore».
Fra i protagonisti del suo ultimo romanzo, c’è Desmond Cormier, un “redbone”, termine spregiativo che indica l’indiano sanguemisto. Un povero e condannato all’emarginazione che ha fatto fortuna. La storia di Desmond” lei scrive “è un pezzo di Americana, ci fa credere che la ricchezza e un regno da favola sono alla portata di tutti, a patto di non risvegliare la nostra inclinazione a spezzare le ossa agli eroi su una ruota medievale e a riconsiderarli in seguito, quando ormai siamo al sicuro, nel sottovento della storia”. In tutti i suoi libri c’è una grande empatia nei confronti degli oppressi, degli schiavi, e una ferma condanna del colonialismo.
«Ridurre in schiavitù i nostri fratelli ha inferto una profonda cicatrice alle nostre anime. Il neocolonialismo rischia di essere il nostro annientamento».
Non si può dire che il suo pensiero al riguardo non sia chiaro! Del resto, lei non scrive gialli “whodunit”, né metafisici, ma ha sempre un occhio alla Storia, alla politica, al sociale.
«Cerco di tenere insieme i vari piani. E di non essere didattico. La politica è noiosa. I rivoluzionari hanno la bandiera in una mano e le poesie di Petrarca nell’altra, e per questo sono benedetti da Dio».
Facciamo un po’ di calcoli… Dave è un veterano del Vietnam, e Clete non è molto più giovane di lui. Lottano per la giusta causa a un’età quanto meno improbabile. Però noi ci crediamo. Come le riesce questo miracolo?
«Perché Dave e Clete discendono direttamente dagli “Everyman plays” del Medioevo (drammi popolari a sfondo moraleggiante, ndt) e da Chaucer. Come disse Ben Jonson: Shakespeare è per sempre!».
Da dove parte, quando affronta una nuova storia?
«Dal primo amore, che per me è la musica. Poi la storia va dove le pare. Non so mai come andrà a finire. Hemingway disse che se lo scrittore sa la fine, lo sa anche chi legge. E Burt Reynolds disse “perché crescere, quando puoi fare film?”. Vale per me, forse vale per ogni artista».
Lei ha scritto anche molti bellissimi racconti brevi.
«Che sono i più difficili, mi creda. È come chiudere un elefante nella custodia di un cellulare!».
Le chiedo una riflessione sui fatti di Capitol Hill: in molti siamo rimasti stupiti e anche preoccupati.
«Stiamo passando un momento orribile, qui in America. Credo che Trump sia patologico, se lo rieleggessero distruggerebbe questo paese. È pure ignorante. Ha lodato Mussolini, “potente leader”. Qualcuno dovrebbe spiegargli che spesso i dittatori fanno una brutta fine».