Corriere della Sera, 27 novembre 2023
Intervista a Marco Klinger
Professor Marco Klinger, Leonardo Manera ha introdotto tra i suoi personaggi Gerry Pannocchia, chirurgo estetico dei Vip che ha lo studio nel Duomo di Milano. Anche lei riceve lì?
«No, no, ci mancherebbe (risata): oltre che nel mio studio, io ricevo all’Humanitas. Ma in compenso mi citavano a Radio Deejay, quando il brianzolo Marco Ranzani diceva: “Dai, non diventare triste, ti porto giù dal Klinger...”».
La definiscono il chirurgo plastico più famoso.
«Non esageriamo, siamo una quarantina al “top”, cresciuti assieme. Siamo sulla cima del mondo e non era mai successo nella chirurgia plastica italiana. Io devo ringraziare i miei ispiratori: mio padre Roberto e mia moglie Ita».
Modificare quello che la natura crea massaggia l’ego?
«Molto, a volte anche troppo. È gratificante la sensazione di migliorare quello che è già bello, ma è perfino più esaltante rendere bello ciò che non lo è o che non lo è più: la mia base è la chirurgia estetica, però faccio anche tanti interventi di chirurgia ricostruttiva».
Quale delle due è più difficile?
«Quella ricostruttiva. Invece quella estetica mette di fronte all’aspettativa del risultato: alla paziente non basta migliorare, lei vuole essere perfetta. Nella chirurgia ricostruttiva puoi invece dimostrare al paziente ustionato o con una malformazione che è stato fatto un bel passo in avanti verso la normalità».
Ha qualche esempio?
«Quello di Alice, una ragazza nata negli anni della canzone di Francesco De Gregori. Aveva una grave malformazione del volto e quando gliel’ho corretta era già una donna adulta. Ogni volta che saliva in ascensore teneva gli occhi bassi perché sapeva che l’avrebbero guardata. Dopo l’operazione è diventata sindaco del suo paese: è tornata a ringraziarmi con la foto del manifesto della campagna elettorale».
Quali sono i pazienti più difficili?
«Quelli dismorfofobici. Non saranno mai contenti, pensano che si possa fare di più. Per affetto saresti tentato di andare loro incontro, invece la testa dice di non rimetterli sotto i ferri».
Ha detto anche dei no, dunque.
«Quando mi accorgo di avere davanti una persona con la quale non ho feeling, non fatico a dire no. Un uomo di norma apprezza, invece con una donna sei rovinato: è più difficile che lo accetti, le donne spesso sono molto più risolute».
Riceve richieste assurde?
«Sì, sempre le solite. Ci si dimentica che puoi migliorare cosce o altro, ma di “Miss Muretto di Alassio” ce n’è una sola... Mostrare le foto dei pazienti pre e post intervento aiuta però molto».
Ci sono modelli che è invitato a seguire?
«Prima erano i personaggi celebri, oggi con Internet sei bombardato di immagini e ti portano quelle. Vogliono imitare e apparire? C’è chi definisce la società attuale la più felice sul piano virtuale e la più infelice su quello reale. I social network propongono vite quasi da avatar: quindi li frequento poco».
La chirurgia estetica è anche sinonimo di guai esistenziali?
«Lo si può pensare, ma in realtà è diventata una cosa di tutti i giorni e per tutti. Ora equivale un po’ a indossare una camicia che piace. Peraltro la vera bellezza non nasce dal bisturi, ma è quella che uno sente».
Quante persone ha operato?
«Circa 50 mila. Come una media città. E i numeri dei Vip, vi assicuro, sono ridotti. Nomi? Non posso farne, abbiamo ferree regole: ci sono però anche dei politici. Quanto ai capricci, a volte mi lasciano stupefatto le richieste di ringiovanimento, pure da parte di uomini».
Sui social c’è anche chi parla male di lei.
«Fa parte del gioco. Agenzie apposite mi propongono di cancellare i pareri negativi. Io non ci penso nemmeno, posso accettare che tra tanti elogi ci sia qualcuno che non approvi. Gestisco la critica con trasparenza: non sono Saibaba e nemmeno l’Arcangelo, mi impegno al massimo ma qualche piccolo problema può capitare. Errori marginali e risolvibili, mai disastri».
Gli aspetti più delicati nella ricostruzione?
«Ho effettuato difficili operazioni al volto e recuperi da ustioni: ridare la vita a chi non può presentarsi in pubblico è appagante. In una donna colpita da tumore al seno è poi importante rifare bene le mammelle: sono simbolo di femminilità e sessualità, ma un buon intervento aiuta anche nel controllo della malattia».
La chirurgia plastica è roba da ricchi?
«Ormai è vista da tutti come una possibilità in più per diventare come ci si sente veramente e in generale per stare meglio con sé stessi. Per quanto riguarda l’aspetto economico, ho sempre cercato di evitare le richieste esose».
Marco Klinger non avrebbe dovuto fare questo mestiere.
«Il primo amore è stato lo sport. Poi ho meditato di diventare giornalista, infine l’influsso di papà, internista endocrinologo, mi ha portato alla medicina. Mi sono appassionato alla chirurgia generale, il passaggio alla plastica è stato casuale. Sono felice di essermene innamorato: era sottodimensionata, però erano gli anni 80 e stava esplodendo».
Quanto è stato vicino a diventare cestista professionista?
«Per la passione, vicinissimo. Ma nella realtà, lontanissimo. Sono rimasto dilettante e mi sono divertito, ero pure istruttore dei bambini. Il basket mi ha aiutato a essere competitivo in modo leale e mi ha regalato l’abitudine a pensare a un successo globale: il concetto l’ho applicato alla chirurgia, ragionando sempre di squadra».
Lo sport l’ha conosciuto grazie a suo padre Roberto, medico della Grande Inter e poi anche della Pallacanestro Cantù.
«Papà mi portava nello spogliatoio, lì ho capito che cosa fosse una vera équipe medica. Di quella Inter amavo tutti, in particolare il Suarez che purtroppo è mancato da poco: era un simbolo di intelligenza. L’idolo della mamma, però, era Facchetti: bello e generoso. Infine, i giganti di Cantù li ho amati tutti».
Aldo Giordani, grande telecronista, la invitò a non darsi al giornalismo.
«Lo incontravo assieme a papà e alla squadra di Cantù. Mi diceva che il suo mestiere era molto bello, ma faticoso e poco gratificante».
Però alla fine Klinger il giornalista l’ha fatto...
«Sono stato ospitato da tante televisioni, su Italia 1 ho fatto Plastik, programma carino e divertente. Ora sono conduttore di una trasmissione prodotta da Italpress, un’agenzia di stampa: intervisto colleghi famosi, restituisco alla medicina quello che mi ha dato e faccio imparare la gente».
Il 18 febbraio 1992 suo padre fu assassinato: 31 anni dopo non c’è ancora un colpevole.
«È la tragedia della vita mia e della mia famiglia. Ci ha consolato verificare l’affetto che lo circondava: immaginavamo che fosse un medico famoso e amato, e ciò divenne certezza sotto forma di plebiscito. Papà ha lasciato un’eredità umana colossale: essere figli di Roberto ci ha consegnato un passaporto diplomatico. Il nostro impegno è essere degni di lui: era un gigante di generosità. Con me era però duro: mi ha adorato, ma mi ha educato come un soldato tedesco».
Voleva che lei diventasse medico?
«Sì, ma non a tutti i costi: semmai mi ripeteva che era inutile che proseguissi con il basket. Da me si aspettava correttezza, dignità e testa alta. Il nostro rapporto era basato sulla fiducia e sulla schiettezza. Un po’ di disobbedienze le ricordo, ma rammento pure le punizioni scontate».
Ricercare l’assassino è stata un’ossessione?
«È un tema delicato e sempre vivo. Se qualcuno avesse fatto a mio padre una violenza “classica”, però con lui ancora vivo, avrei inseguito costui in capo al mondo. Ma nel momento in cui papà non c’era più, non era la vendetta l’aspetto che ci muoveva. Non sarebbe tornato: questo era ossessionante, com’era pesante avere il ricordo dei suoi ultimi sguardi».
Come avete compensato la sua assenza?
«Creando un mondo, un po’ falso e un po’ vero, nel quale papà era ancora a nostro fianco. Quando ho ricevuto un premio negli Usa, ho proiettato come prima immagine la sua foto. E mi sono commosso: volevo farlo sopravvivere. Ho cercato di “simulare” di essere un pezzo di lui e l’ho fatto anche pensando ai familiari».
Un giorno ha incontrato il più serio indiziato dell’omicidio. Quale sensazione ha avuto?
«Erano anni che me lo facevano evitare, visto che bazzicavamo negli stessi posti. Alla fine lui ha aspettato me: mi ha giurato di non aver ucciso papà. Sentivo una voce che mi diceva che era sincero. E anche se fosse stato l’assassino, aveva già avuto la sua pena nel rimorso. Gli ho stretto la mano e ho pensato che quel gesto fosse per lui un grande sollievo».
Quale personaggio del jet set le sarebbe piaciuto operare?
«Magari qualcuna di cui ero innamorato… Mi sarebbe piaciuto avere a che fare con Lady Diana o con una donna effervescente come Tina Turner, anche lei purtroppo scomparsa di recente».
Ha scritto un libro per dare 600 risposte ad altrettante domande sulla chirurgia estetica: ha dimenticato qualcosa?
«Le domande sarebbero mille… Ho messo a fuoco le richieste più comuni, dando risposte sensate. La mia fortuna, comunque, è aver avuto un maestro come Luigi Donati, insegnare alla Statale e lavorare in un ospedale del valore dell’Humanitas con colleghi che hanno accettato la mia esuberanza e che ora sono come fratelli».
In tema di baffi, lei ricorda Mark Spitz, il fuoriclasse americano del nuoto.
«Una discreta somiglianza mi ha aiutato e mi ha permesso pure delle conquiste femminili. Però essere paragonato a Spitz mi ha dato prima di tutto tante sicurezze: quindi ringrazio Mark, le sette medaglie d’oro che ha vinto ai Giochi 1972 e… i suoi baffi».