Corriere della Sera, 27 novembre 2023
Biorafia di Giorgio Bassani
L’appartamento di Lungotevere a Ripa dove viveva Giorgio Bassani in quel periodo era quasi di fronte all’isola Tiberina. Davanti a quello che i romani chiamano il ponte Rotto, ovvero il ponte Aemilius. L’unica arcata rimasta è del secondo secolo avanti Cristo, dalla fine del Cinquecento nessuno ha più provato a ricostruirlo. Ogni volta veniva travolto dalle piene del Tevere. Non potevo chiedere a Bassani cosa ne pensasse, se la storia che aveva raccontato nei suoi racconti e nei suoi romanzi, di uomini travolti dagli eventi, di intere famiglie cancellate e deportate, di una Ferrara, la sua città, che non sarebbe più stata la stessa, e che è stata il teatro del suo immaginario. Se attraverso questi libri bellissimi, che continuano a essere letti dai più giovani, trovava una corrispondenza con quell’arcata antica, una corrispondenza di origini e di dolori.
Certo che il suo libro più celebre, Il giardino dei Finzi-Contini, inizia proprio con una visita alle tombe etrusche di Cerveteri. Una bimba chiede al narratore come mai «le tombe antiche fanno meno malinconia di quelle più nuove» e non ci restituiscono lo stesso struggimento e dolore, lo stesso lutto delle tombe più recenti. E il narratore risponde: «gli etruschi è tanto tempo che sono morti che è come se non fossero mai vissuti, come se siano sempre stati morti». Il tempo guarisce, il tempo sana. Il tempo allontana, si sa. E invece per lui, per Giorgio, il tempo resta tutto lì, in pochi anni, lì a Ferrara: dalle leggi razziali alla Repubblica di Salò, e qualcosa dopo, ma solo per indagare cosa era accaduto negli anni immediatamente successivi, per quei pochi ebrei che a Ferrara erano poi riusciti a tornare.
L’appuntamento era alle 16.00. Il professore mi aspettava. Avevo insistito a lungo con Gian Arturo Ferrari, direttore editoriale Mondadori e con Renata Colorni, a capo della collana dei classici, i Meridiani: Bassani meritava un’edizione delle opere che cancellasse quella vergogna del gruppo 63, di un’avanguardia disinvolta che lo aveva definito la Liala delle patrie lettere. Dove Liala non era altro che una scrittrice rosa, che pubblicava romanzi di aviatori impavidi e signorinelle pallide. Fu una cosa del tutto insensata, che non riuscì in alcun modo a oscurare la fama e la bellezza dei libri di Bassani, ma che certo doveva averlo addolorato. Si trattata di rimettere la chiesa al centro del villaggio, se si può usare questa espressione.
Mi ricevette Portia Prebys, la compagna di Bassani, e mi fece entrare in quel grande soggiorno con dipinti di scuola ferrarese, e oggetti di una vita. «Il professore», ci raggiunse. Era il 1997, aveva 81 anni. L’Alzheimer, malattia mai nominata in quel contesto, aveva già da tempo fatto i suoi danni. Non c’era quasi possibilità di dialogo. Domandò del mio nome, stette molto in silenzio, per poi richiedermi ancora come mi chiamassi. E all’improvviso ebbe un momento di lucidità, e mi chiese se conoscevo il saggio di un’americana su Micol Finzi-Contini. Era un fluttuare in territori della mente che andavano e si ritiravano, come fossero maree. Davanti alla sua poltroncina c’era un dipinto che lo ritraeva. «Di chi è?», chiesi. «Non mi ricordo», rispose. Arrivò Portia: «È di Carlo Levi». Non ricordava che Carlo Levi lo aveva ritratto. Tornai più volte in quella casa. Portando i capitoli del lungo saggio introduttivo che avrebbe aperto il Meridiano. Oggi si intitola: «L’enigma della memoria». Ma il titolo originale era un altro: «La ferita della memoria». Perché quella fu una ferita di tante ferite. La ferita di un giovane brillante, proveniente da una famiglia ebraica agiata (il padre era un agrario, un possidente) che si ritrova emarginato dalle leggi razziali. La ferita di una città, Ferrara, che vantava una delle più importanti comunità ebraiche d’Italia, la ferita di quella memoria, dei tanti che non tornarono, che finirono nei campi di concentramento nazisti. E la ferita di Giorgio, che dopo aver scritto L’Airone, forse uno dei più bei libri della letteratura italiana del Novecento, nel 1968 comincia a capire che qualcosa non funziona.
Lui che aveva vinto il Premio Strega nel 1956 con le Cinque storie ferraresi, libro di esordio nella narrativa, che aveva scritto uno dei più importanti best seller degli anni Sessanta, quella storia di Micol Finzi-Contini, talmente intensa da aver fatto sperare a tutti noi che abbiamo letto quelle pagine, che lei fosse esistita, e che fosse esistito anche quel giardino, quando invece non è mai esistita Micol e non c’è mai stato il giardino. Lui, Bassani, che aveva scritto un libro bellissimo sull’emarginazione del professor Fadigati, Gli occhiali d’oro, reo di essere omosessuale, e poi di aver raccontato l’amicizia e anche la delusione in Dietro la porta. E ancora che aveva avuto la soddisfazione di vincere un Oscar con Il giardino dei Finzi-Contini, per la regia di Vittorio De Sica. Bassani che era ormai uno dei grandi della letteratura italiana, con Moravia, con Elsa Morante, con Italo Calvino, con Natalia Ginzburg, e pochi altri, capisce che è diventato difficile scrivere qualcosa di nuovo. È l’anello che non tiene, come direbbe Montale, è un mondo che si spezza in modo silenzioso. La ferita della memoria era di fronte a me. Quando leggeva le pagine che gli portavo, ma non se ne discuteva, e restava la speranza che qualcosa arrivasse, che potesse comprendere tra le pieghe di questo lavoro. Ma prima della malattia? Prima Giorgio Bassani era un uomo coltissimo, brillante, persino severo. Qualcuno dice scostante. Uomo difficile Bassani, e giovane entusiasta. Divenne allievo di Roberto Longhi, e questo gli cambiò la vita. Perché quelli erano tempi in cui i professori cambiavano le vite. Longhi era elegantissimo, allegro. A una gita scolastica con Longhi, erano andati ad Assisi per tre giorni – durante il viaggio di ritorno Bassani flirtava sul treno con una compagna di università. «Longhi osservava me e la ragazza seduti di fronte a lui, e sorrideva sardonico nell’ombra azzurra della lampada schermata».
Ultima cena
Ma l’amicizia tra loro si consolidò con il tennis. Una delle grandi passioni di Bassani. La partita a tennis era quasi un rito per lui. Finì che il grande Longhi giocasse in doppio con Bassani, e in quel caso era il giovane allievo a dare indicazioni, a correggere. E Longhi obbediente a migliorare il colpo e lo stile. Si gioca a tennis nel Giardino dei Finzi-Contini. Si gioca a tennis anche in Blow Up di Michelangelo Antonioni, un altro ferrarese illustre. Con il tennis ho avuto la speranza concreta che nella sua mente gli ingranaggi della memoria non si fossero del tutto perduti. Finito il lavoro del volume di opere complete si decise di organizzare una cena molto ristretta a casa Bassani. Eravamo in sette: Portia Prebys e Bassani, una coppia di amici di vecchia data, e il fratello di Giorgio, Paolo Bassani, con la moglie. Giorgio era seduto di fronte a me. E per tutto il tempo non disse una parola. A fine cena si accese un sigaro cubano: fumava lento, e non guardava nessuno. Finché la moglie del fratello Paolo si è rivolta a lui: «Giorgio, tuo fratello sta dicendo che giocava meglio di te a tennis». Bassani, che a tennis era stato un giocatore appassionato e assai competitivo, aspirò ancora una volta. Restò in silenzio per il tempo di far uscire il fumo. E poi con una consapevolezza spiazzante e sorprendente rispose: «Forse». Fu l’unica parola che disse. Un semplice avverbio.
Non l’avrei più rivisto.