La Stampa, 27 novembre 2023
Intervista a Luca Bizzarri
«Sono un tipo solitario, un orso. Non ho amici (non molti almeno). Mi piace il silenzio, stare solo in una stanza», dice di sé Luca Bizzarri.
Da più di un anno ha un podcast quotidiano, molto ascoltato su Spotify, graffiante e puntuale...
«In sette minuti si commentano i fatti del giorno e i misfatti della politica. Ora ho deciso di declinarlo, con lo stesso titolo, in un one man show che sarà in tournée fino ad aprile».
Titolo che incuriosisce Non hanno un amico: chi non ne avrebbe?
«I nostri politici, che fanno di tutto per essere al centro della nostra attenzione, spasmodicamente alla ricerca delle luci della ribalta, affetti da bulimia da social. Scrivono cose che se solo avessero un amico a consigliarli (o un buon consulente alla comunicazione) di certo non direbbero».
Quindi, non avere amici fa male?
«Io mi sento tranquillamente nel gruppo di chi non ne ha. Non averne e averne tanti (troppi) è la stessa cosa. Diffido di chi è troppo in mezzo alla gente. Forse mi sbaglio, forse sono un po’ troppo orso».
È forse l’indole (triste) del comico che le fa dire così?
«Ne ho pochissimi e selezionati. Li scoraggio, non telefono mai, mi faccio vedere poco, non mi confido. Se hanno bisogno di me, però, io ci sono. Non sono amicizie che arrivano dall’infanzia, nessuno dal mondo dello spettacolo, sono incontri avvenuti nel corso del tempo. Persone normali che stimo, cui mi legano forse alcuni aspetti del carattere, sensibili e intelligenti. Di certo disponibili alle mie assenze e al mio carattere. Persone che ho sentito “a pelle”, da subito. Diciamo che la qualità c’è, non la quantità».
O una questione di fiducia?
«Assolutamente, no. Forse per via dell’ascendente emiliano che arriva da mio padre, sono una persona estremamente fiduciosa nel prossimo. E questo malgrado io sia cresciuto e viva a Genova, città in cui la diffidenza la fa da padrona nei rapporti personali».
Si può ipotizzare po’ di pigrizia?
«Forse. La mia storia è quella di uno abituato a stare da solo. E che ha fatto di questo la propria comfort zone. Mi sono disabituato a rapportarmi con gli altri. Nella mia quotidianità mi piace scrivere, registrare, stare da solo in una stanza. Al cinema e a teatro vado da solo. Anche al ristorante, e qui ascoltare le conversazioni dei tavoli vicini».
Ma Paolo Kessisoglu?
«Sia chiaro: non è che perché faccio uno spettacolo senza di lui, significa che ci siamo separati. Semplicemente ho una espressività che in questo momento esprimo anche senza di lui, senza per questo mettere in gioco il nostro rapporto».
Ma come amico?
«Siamo insieme da 30 anni e più. Tra noi è un’altra cosa: un rapporto matrimoniale, collaudata impresa. Se lavori con una persona tanto come abbiamo fatto noi, penso che sia più sano e meno rischioso tenere le cose separate».
Al podcast è arrivato perché è un’attività solitaria?
«Sono sempre stato un grande ascoltatore della radio. Passare da quella ai podcast (altrui) è stato abbastanza naturale: la voce parlata mi ha sempre attratto. Ora magari il fenomeno è esploso e ci sono più podcast che ascoltatori, ma è un ottimo medium, molto flessibile e adattabile, permette di affrontare le tematiche più differenti, nei modi che vuoi, richiedendo anche, da chi ascolta, tipi di attenzione diversi».
Chi vorrebbe come amico?
«Luca Parmitano: sarebbe la realizzazione di un mio sogno da bambino, l’amico astronauta. Nella vita sono state tante le persone di cui mi piacerebbe definirmi amico: frequentate magari per poco, hanno lasciato impronte indelebili. Come Alex Zanardi: senza accorgersene e senza volerlo, mi ha insegnato tanto».
Nessuno nello spettacolo?
«Giorgio Gaber: ci siamo incrociati tanti anni fa per il tempo di uno sguardo, ma in quel poco mi ha raccontato quale sarebbe stata la mia vita nel futuro. Forse più di chiunque mi ha mostrato la strada. E poi c’è Adriano Panatta: lui mi ha fatto vedere un modo di vivere che vorrei tanto fosse il mio. Se rinascessi, non vorrei il suo rovescio o la volée, ma la sua testa: come riesce a farsi scivolare le cose addosso, mentre su di me ogni cosa invece lascia segni. Il bello è che te lo trasmette: stai con lui e ti senti come lui. Però in questo momento un po’ gliene voglio: gli ho chiesto di fare un podcast con me. “E cos’è?”, mi ha chiesto. Poi, durante gli ATP Finals l’ha fatto con Bertolucci. Non glielo perdonerò mai».
Non hanno un amico da podcast a spettacolo: solo davanti al microfono, solo in scena. Come è?
«Il teatro è quella botta lì: la gente in platea e lo stomaco che si chiude come a un debuttante. Poi passa, ma intanto... Lo amo e lo odio il teatro. Ma l’applauso... Che gran bel rumore è l’applauso». —