la Repubblica, 27 novembre 2023
In Georgia, il dramma dei bimbi rubati alla nascita
TBILISI – Per diciannove anni, Ano Sartania e Tako Khvitia hanno vissuto in differenti città della Georgia senza incontrarsi. La prima nella capitale, Tbilisi. L’altra a Zugdidi, in Mingrelia. Finché un giorno di novembre del 2021, Ano riceve un video di TikTok con una ragazza identica a lei. Sbalordita, esamina uno per uno i diecimila follower dello studio di tatuaggi che ha pubblicato la clip. Non la trova. Allora posta uno screenshot in un gruppo Facebook. Una compagna di Tako, che intanto si è trasferita a Tbilisi, lo nota e le dà il contatto. Le ragazze si scrivono. Si danno appuntamento alla fermata della metro Rustaveli, nel centro della città. Piove. Quando si trovano l’una di fronte all’altra, le ciocche bionde che fuoriescono dai cappucci neri di entrambe, è come guardarsi allo specchio.
Il 20 giugno del 2002, a Kirtskhi, un paesello a una manciata di chilometri da dove Tako è cresciuta, Aza Shoni dà alla luce due gemelle.
Le sente piangere. Sprofonda in coma per giorni.
Non è chiaro se prima o dopo la notizia, datale dai medici, della morte delle neonate.
Le sorelline, oggi certe di essere state vendute dal padre, vengono adottate separatamente da famiglie che le colmeranno di affetto. Eppure, fino a quel 25 novembre di due anni fa, saranno accompagnate da un costante senso di mancanza.
Una storia di ordinario strazio in Georgia, dove tra gli anni ‘80 e i primi Duemila, a cavallo tra i rantoli dell’Unione sovietica, di cui era parte, e i vagiti del nuovo Stato, prosperava un fiorente mercato di adozioni illegali. Anni duri, caratterizzati da un’economia al collasso e una sanguinosa guerra civile. E da una generazione di medici e infermiere, ma anche giudici e notai, che è oggi accusata di essersi arricchita commerciando neonati. «Tutti erano coinvolti», sostiene Tamuna Museridze, fondatrice del gruppo Facebook “Vedzeb”, (“Sto cercando”), che conta oltre 230mila membri in un Paese con meno di quattro milioni di abitanti. Seduta in un caffè di Tbilisi, nel quartiere altolocato di Vake, espone i risultati dell’attività di ricerca degli ultimi due anni. «Il primo caso risolto risale al 1981», racconta. «Ci scrive un ragazzo, Gia, alla ricerca della madre biologica. La madre adottiva gli aveva svelato che l’aveva ottenuto dietro compenso da una ginecologa. Abbiamo affrontato questa donna, e alla fine ha confessato». Tamuna beve un sorso di tè.Prima di scoprire di essere stata a sua volta adottata, era una famosa giornalista televisiva. Non è ancora risalita all’identità dei suoi genitori biologici, ma nel frattempo più di 700 famiglie si sono riunite grazie a lei. «La ginecologa ha rivelato di aver detto alla partoriente, tra l’altro una sua figlioccia, che il bimbo era morto», continua. «La parte più dura è stata convincere la madre biologica di Gia a fare il test del Dna. Non poteva accettare che la sua madrina fosse responsabile di una tale crudeltà». Dopo lavicenda di Gia, il gruppo esplode: i segreti inconfessabili, i sensi di colpa, le verità sepolte di un’intera nazione iniziano ad affiorare. «Un’altra svolta è stata quando abbiamo scoperto che nessun ospedale aveva un cimitero per neonati. Per le famiglie a cui i medici avevano detto che si sarebbero occupati della sepoltura è stato uno shock. Purtroppo, non tutti i bambini sono stati venduti. Alcuni sono davvero deceduti. Abbiamo testimonianze di celle frigo nei seminterrati degli ospedali, dove erano conservati i corpicini di neonati con diverse caratteristiche. Li mostravano alle famiglie che insistevano per vederli». Per “Vedzeb”, i bambini adottati illegalmente sarebbero oltre 100mila. Dopo la caduta dell’Urss, tanti sono finiti negli Usa, in Canada e in Europa. A settembre 2022, Tamuna viene convocata al ministero degli Interni: «Mi hanno comunicato di aver avviato un’indagine».
Al caffè di Vake arriva Ano. Dopo aver ritrovato la sua gemella su TikTok, grazie a “Vedzeb” si è riunita anche con una sorella e un fratello che abitano nella Georgia occidentale. Ano racconta che tre settimane fa è volata con Tako a Lipsia, in Germania, dove vivono la madre biologica e l’altra sorella, con una produzione che sta girando un film sulla loro storia. Confida che non voleva andare, di provare molta rabbia. «A un certo punto ha saputo che eravamo vive. Perché non ci ha cercato?». Il poco tempo a disposizione non ha permesso di trovare la risposta a una domanda così complessa. Eppure, Ano rivela di sentirsi più leggera. «Ogni essere umano», dice, «ha un suo odore. Quando l’ho abbracciata, annusata, ho provato una sensazione di familiarità. Poi la voce, è come se sapessi già che voce aveva».