La Stampa, 25 novembre 2023
Un giorno in Amazon
Il rumore non concede mai tregua. Dieci chilometri di nastri trasportatori che viaggiano senza sosta. Un rullare incessante che ti corre sopra la testa. Le casse trasmettono musica. Suoni, led, monitor. E poi oggetti ovunque: scatoloni, pacchi, confezioni, pile.Giovedì mattina, Novara Ovest, l’ultimo dei tre stabilimenti che Amazon ha aperto in Piemonte, due anni fa. Quattro piani, 60 mila metri quadrati ciascuno. Ci lavorano circa mille persone ma questa settimana sono raddoppiati, assunti attraverso agenzie interinali per gestire il “picco”, così lo chiamano: il Black Friday (la settimana dei prodotti a prezzi scontati) e la marcia di avvicinamento al Natale. Per un giorno ci siamo anche noi. Abbiamo bruciato le tappe: un’ora di formazione sulla sicurezza – per i neo assunti sono previsti due giorni – e via sulle linee dove ogni giorno si confezionano centinaia di migliaia di pacchi. Tre turni da otto ore, chi ha famiglia può chiedere l’orario centrale, 8,30-16,30, il nostro. In questo periodo si lavora sei giorni su sette. Anche parcheggiare all’esterno non è semplicissimo ma avremmo potuto venire in treno: Amazon ha fatto costruire a sue spese una fermata ad hoc sulla linea Novara-Biella.All’ingresso c’è un muro di armadietti dove lasciare giacche, zaini, oggetti vari. Poi si passa al controllo del telefono, una targhetta da applicare per identificarlo come nostro: i furti di merce in vendita, in particolare smartphone, a quanto pare sono piuttosto frequenti. A questo punto possiamo entrare.L’ingranaggio composto di quattro attività: ricezione della merce (receive), stoccaggio (stow), prelievo (pick), e infine impacchettamento per la spedizione (pack). Le merci entrano nel grande capannone accanto all’autostrada Torino-Milano, scaricano tonnellate di prodotti. Un reticolo di nastri convoglia i pacchi verso un’ala del piano terra. Metri e metri di pile di scatoloni e confezioni. Lì incontriamo i primi addetti: il loro compito è estrarre i pacchi dalle maxi confezioni e adagiarli sul nastro che li invia al secondo gruppo di lavoro, una serie di linee con una postazione ogni tre metri circa. Il pacco arriva, viene aperto e il contenuto rimesso sul nastro che prosegue la sua corsa.Il lungo serpentone di prodotti di ogni genere – a Novara si trattano solo oggetti con peso inferiore ai 15 chili – comincia una tumultuosa ascesa. Il piano terra è l’area in cui le merci arrivano in magazzino e poi, alla fine della catena, ripartono per arrivare nelle case di milioni di persone. Ma il cuore di questo ingranaggio sta fra il secondo e il terzo piano: 180 mila metri quadrati di magazzino, dove i prodotti arrivati vengono stoccati e poi,in base agli ordini, prelevati, impacchettati e inviati nuovamente al piano terra, stavolta ciascuno con l’etichetta del destinatario.Ogni piano è uguale a se stesso, un enorme rettangolo diviso in due aree: un piccolo perimetro dove si trovano le postazioni di lavoro e un gigantesco centro dove dischi azzurri sollevano e muovono i “pod”, torri gialle alte circa tre metri. Ciascuna ha quattro lati aperti con 40 scaffali per lato: ogni scaffale può contenere a seconda del volume da uno a quindici-venti oggetti, quasi sempre tutti diversi tra loro. Lo stoccaggio è casuale, ogni oggetto finisce nel primo posto libero, ed è l’unica cosa casuale qua dentro: ha una logica ferrea, permette di ricaricare immediatamente gli spazi vuoti senza averne in “letargo” ma soprattutto non richiede personale addestrato perché nessuno deve memorizzare dove sono collocati i vari tipi di prodotto.Le torri sono decine di migliaia per piano. Gli oggetti milioni. Lì c’è tutto quel che compriamo. Un sistema completamente automatizzato ferma le torri davanti alle postazioni. Anche qui l’attività è duplice: c’è chi deve inserire gli oggetti da stoccare nelle torri e chi li preleva per chi poi li farà impacchettare. A noi tocca il secondo compito. Una pedana rialzata, davanti si parcheggia la torre, a lato ci sono cinque scatoloni neri (per i prodotti), uno rosso (per quelli difettosi) e uno bianco (per quelli presi per errore). Si passa il badge al lettore ottico e si comincia. Arriva la prima torre: sul monitor compare il codice dello scaffale dal quale dobbiamo prelevare il prodotto, il nome, la descrizione e un’immagine dell’oggetto. Un gioco per bambini, in questo caso. Un faro illumina lo scaffale giusto. Se è ad altezza uomo non resta che afferrare la confezione, altrimenti c’è una piccola scaletta. L’oggetto va passato sullo scanner: luce verde e suono armonioso, vuol dire che è quello giusto. Un’altra luce verde illumina in quale dei cinque contenitori neri posarlo; a quel punto si schiaccia un bottone e la torre gialla riprende la sua corsa. Nemmeno il tempo di distrarsi, ecco un’altra torre e si riprende da capo. Stavolta lo scanner accende la spia rossa e il suono cambia. Abbiamo sbagliato: nello scaffale c’erano quattro caricabatterie, sembrano uguali ma non lo sono. Prendiamo quello giusto.Tra una postazione e l’altra ci saranno cinque metri: impossibile parlare con il vicino, troppa distanza e troppo rumore. L’area in cui si muovono i “pod” è cinta da grate metalliche. Capita però di doverci entrare perché un oggetto cade o sporge e blocca le torri costringendole a cambiare percorso. A quel punto entra in azione Luana. Da un tablet crea il percorso per raggiungere il “pod": «Blocco alcune torri, ne sposto altre per liberarmi il percorso». A quel punto attraverso un’antenna che porta sulla schiena si connette con il cervellone che governa i “pod”, la porta si apre e lei può entrare senza timore di essere investita dal moto perpetuo delle torri. Un paio di minuti ed eccola di ritorno.Dopo dieci minuti in postazione siamo già un po’ storditi: il rullare dei nastri trasportatori, i robottini che muovono le torri, la musica, i suoni degli scanner e dei macchinari, i fari che illuminano gli scaffali. E poi il ritmo: guarda il monitor, individua l’oggetto, scansionalo, gettalo nel contenitore e premi il pulsante, poi ricomincia. Chi è bravo impiega non più di sei-sette secondi. Logicamente più si è svelti più il ritmo cresce perché il sistema non dà tregua: prelevato un oggetto il faro illumina subito un nuovo scaffale.La nostra postazione, come tutte, è costellata di avvisi e immagini con suggerimenti e istruzioni per lavorare in sicurezza. Lo stesso accade in tutti gli ambienti dello stabilimento. L’attenzione è massima. Tutti i servizi, in generale, sono di ottimo livello: molti bagni, distributori d’acqua, di guanti. Il problema è staccarsi dalla propria postazione, spezzare il ritmo. Uno dei cinque contenitori è pieno, gli altri per metà: una luce gialla ci avverte che quello pieno va spinto via verso il reparto pack.In ogni piano ce n’è uno. A metà hanno creato un’area sperimentale, due linee parallele: la prima preleva gli oggetti dalle torri, la seconda li impacchetta. Noi siamo addetti ai pacchi. Ogni scaffale equivale a un cliente che può avere ordinato uno, due o più prodotti. Il monitor indica per prima cosa il formato del pacco necessario: per facilitarci gli assegna un colore, basta alzare lo sguardo e pescare quello giusto. Subito dopo un bocchettone sputa una striscia di nastro adesivo dell’esatta misura del nostro pacco. Poi ci giriamo verso gli scaffali: una luce ci dice qual è il nostro, preleviamo gli oggetti, li scansioniamo e li inseriamo nel pacco. Se il cliente ha chiesto la ricevuta una macchina la emette; se il pacco contiene batterie o simili serve un’altra etichetta. Ma il monitor ci dice tutto: niente è lasciato alla nostra valutazione; solo la scelta se aggiungere un po’ di carta se la confezione è troppo grande. Il bocchettone sputa dell’altro nastro per chiudere il pacco, sempre della lunghezza giusta, poi l’etichetta, si passa la confezione sotto lo scanner e via sul nastro verso i tir che aspettano al piano terra.Anche qui chi è svelto in trenta secondi può confezionare un pacco. E anche qui il sistema incalza: spedito un imballaggio appare subito il prossimo da confezionare. Non a caso chi può cambia spesso mansione: ricezione, stoccaggio, prelievo, impacchettamento. «Altrimenti diventerei pazza», ci racconta una collega senza interrompere la sua attività.A seguire il ritmo del reparto ci sono i responsabili di area. La nostra si chiama Alessia: è gentile ma sempre allerta. I tir partono all’ora prestabilita e devono avere l’esatto carico. Se ne manca qualcosa il mezzo parte comunque e la consegna salta. Alessia ha due compiti: verificare che non manchi nulla e nel caso recuperarlo; e controllare che tutte le postazioni lavorino senza sosta. Come dice lei, «che tutti gli addetti spingano per raggiungere l’obiettivo». La pressione si sente: già un’ora prima della partenza dal piano terra cominciano a segnalare cosa manca.Il segreto che permette a un pacco di arrivare a casa il giorno dopo averlo ordinato è tutto qui: un maniacale controllo del processo ma anche un’incessante pressione ambientale sul lavoratore. Ecco perché qui sono quasi tutti molto giovani. Ed ecco perché il turnover è altissimo: tanti nuovi assunti e altri che lasciano usurati da ritmi alienanti e massacranti. Non a caso venerdì – il giorno dopo il nostro arrivo – in tutti gli stabilimenti Amazon d’Europa si è scioperato. In quelli piemontesi alcuni sindacati hanno rallentato i ritmi per protesta: chiedono retribuzioni equiparate alle mansioni, meno controlli sui dipendenti (dalle pause alle uscite alle performance), ambienti meno rumorosi, una policy sull’uso dei telefoni. Ogni turno dura sette ore e mezza più 30 minuti di pausa, circa a metà. La mensa è al piano terra, accanto c’è un’area relax. Per raggiungerla bisogna avviarsi verso l’uscita e passare dal metal detector, come quando si finisce il turno (sistema contestato dai lavoratori per la sistematicità dei controlli). Chi lavora al piano terra impiega non più di tre-quattro minuti per arrivare in mensa ma per chi è al quarto piano, magari dal lato opposto dell’edificio, la mezz’ora per metà se ne va in spostamenti.Che ci sia uno stato di allerta è testimoniato dalla premura con cui Amazon chiede – tra bacheche, lavagne e maxischermi – ai dipendenti di suggerire miglioramenti o idee. «Abbiamo introdotto quasi 5 mila innovazioni frutto delle idee dei nostri addetti», spiega un responsabile.Fine turno. Se avessimo mantenuto sempre lo stesso ritmo avremmo maneggiato di sicuro oltre 500 oggetti. Moltiplicati per le circa 2 mila persone che lavoravano giovedì si supera comodamente il milione in una interazione totale tra uomo e macchina. L’uso della tecnologia è spinto al massimo ma ha l’effetto di rendere indispensabile il ricorso massiccio della manodopera. E questo connubio risponde a una logica nitida: ottimizzare la prestazione umana, avvicinarla il più possibile a quella di una macchina. —