La Stampa, 25 novembre 2023
Intervista a Sergio Romano
Dalla conquista di Fiume alla Marcia su Roma, l’Italia è il Paese dove ben prima che a Capitol Hill, in Russia e in Israele si è vista una politica che imbraccia le armi pur di affermarsi. Lo racconta Sergio Romano, 94 anni, vicentino, storico ed ex ambasciatore, nel suo saggio La democrazia militarizzata (Longanesi).
Di recente sono scoppiati due conflitti alle porte dell’Ue, in Ucraina e in Israele, cosa dobbiamo temere?
«Ho l’impressione che non costituiscano un vero pericolo semplicemente perché, commettendo un errore, non ce ne occupiamo più. La situazione è come congelata e ridotta ad una guerra a bassa intensità. Combattere è diventato come andare in ufficio».
Perché la guerra si è cristallizzata?
«In Israele si attende la trattativa sugli ostaggi e sono abituati da sempre al conflitto. In Ucraina molti dei Paesi che avevano il desiderio di dare un colpo alla Russia hanno capito che Putin non è così preoccupante».
Che sbocchi vede?
«Nessuno purtroppo. Si può continuare così per anni. Tra Israele e Palestina sarebbe intelligente la soluzione dei due popoli e due stati, su cui vorrei essere ottimista. In Ucraina alcuni Paesi sanno di aver sbagliato, ma non come uscirne e pure i russi si sono irrigiditi nelle loro posizioni».
Anche gli americani si sono stancati di combattere?
«La comunità ebraica Usa è molto attiva nel sostegno a Israele. In Ucraina gli Stati Uniti hanno visto un’occasione della loro polemica con la Russia, che ora appare ridimensionata. Inoltre, Kiev sembra divisa tra fazioni quasi in un conflitto domestico».
Finanziamenti e armi non sono locali però…
«Le armi si danno soprattutto ai clienti che pagano, non solo a chi si vuole che vinca. Anche per questo non vedo una fine».
Putin, a cui ha dedicato un altro libro, è ancora saldo?
«Mi pare che la vicenda ucraina sia calata di interesse anche per i russi e così pure le sue conseguenze sull’immagine del presidente, che tutto sommato rimane al suo posto».
E Biden?
«Temo che le conseguenze per la sua figura saranno drammatiche, perché gli Stati Uniti stanno perdendo il ruolo di grande potenza mondiale. Hanno dissipato l’autorevolezza conquistata dopo la Seconda guerra mondiale e non si capisce cosa vogliano fare. Insomma, stanno dormendo».
E Trump, che in un suo libro lei definì come la fine del sogno americano?
«Credo al suo ritorno nella misura in cui credo alla decadenza degli Stati Uniti, ma se questi non hanno più il ruolo di una volta in fondo anche lui non preoccupa più di tanto. Anzi, per l’Europa è meglio un’America isolazionista. Gli Usa sono stanchi di fare la grande potenza, e a noi non spiace».
L’Ue durerà?
«Alcuni Stati sono destinati ad andarsene, ma esiste un patriottismo europeo, l’Unione tutto sommato funziona e leader come Macron si muovono con coraggio».
Si arriverà ad un’Europa di serie A e una di B?
«È possibile, perché bisogna decidere più in fretta. Ci sono delle istituzioni, ma occorre rivedere quel che si è costruito mettendo un po’ in discussione l’europeismo. La vera riforma sarebbe eliminare alcuni ministeri nazionali come Industria, Difesa ed Esteri. Le difficoltà nell’avanzamento europeo sono tutte nazionali e dipendono dall’istinto di sopravvivenza delle burocrazie».
Come giudica l’attuale politica estera italiana?
«Si dorme a Washington, ma pure a Roma, anche perché non si viene fortemente sollecitati dall’estero. Lo stile però è buono, l’idea di Europa viene conservata come necessaria e le alleanze internazionali anche. Non vedo partiti veramente antieuropei o nazionalisti così forti da rinnegare il nostro ruolo tradizionale».
Qual è il governo che ha attuato la migliore politica estera?
«Prodi ha fatto un buon lavoro, con uno sguardo veramente europeo, privo di nazionalismo e ricco di idee sull’Unione, tanto che poi divenne presidente della Commissione».
L’Italia ha dei grandi limiti rispetto agli altri Paesi Ue o ci sottovalutiamo?
«Tutto sommato penso che lavori bene, anche se non va dimenticata la presenza della Chiesa. Papa Francesco è intelligente e consapevole della distribuzione dei compiti con lo Stato, ma non è andata sempre così e permane il rischio di un’instabilità politica o ideologica. Ora per fortuna però vedo un’Italia saggia».
Come considera la premier Meloni?
«Mi sembra brava, ma sul serio. E mi pare di buon senso, che in queste circostanze è difficile. E poi ci sta dicendo con garbo, senza clamore, che le donne possono governare: una rivoluzione in Italia».
Meloni si definisce una conservatrice, lo può fare nonostante la sua origine missina?
«Si è presa solo l’utile di quel retroterra, e del fascismo il poco che si poteva ricordare con dignità. La trovo credibile nel suo tentativo, anche perché il passato è ormai Storia e lei lo affronta in questo modo».
L’Italia può davvero avere una nuova destra europea?
«Bisogna sperarlo, perché serve una riconciliazione. L’antifascismo aveva senso con l’Msi, ora non più».
La sua biografia si intitola Memorie di un conservatore.
«Sì, e la parola mi continua a sembrare elegante, anche se francamente mi guardo attorno e penso che ormai lo siano tutti».
C’è differenza tra il suo conservatorismo e quello di Meloni?
«Sì, il mio si riferisce al mondo anglosassone e ha una forte dose di liberalismo, che non è il pasto di Meloni».
E questo non le fa paura?
«No, affatto». —