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 2023  novembre 26 Domenica calendario

Intervista a Fabrizio Gifuni

Fabrizio Gifuni, 57 anni, intona la voce di Aldo Moro: «Con il vostro irridente silenzio…». Alle pareti foto di Pasolini e Volonté calciatori. Libri impilati. Un cd di Chet Baker. Da martedì torna in scena con Pasolini e Moro. Due spettacoli distinti ma collegati al Teatro Della Pergola a Firenze: Il male dei ricci,dedicato a Pasolini, dal 28 al 30 novembre; Con il vostro irridente silenzio,sulle carte di Moro, dal 1 al 3 dicembre.
Cos’è per lei il palcoscenico?
«Quando sono in teatro sto meglio fisicamente e mentalmente.
Respiro meglio. Ritrovo ancora in questo luogo ciò che fuori è andato perduto: umanità, ascolto, corpi vivi, un senso più profondo della politica fatta di condivisione e confronto con la complessità».
Com’è nata la sua vocazione?
«Nel mio liceo, il Dante, nel 1982 organizzarono un laboratorio teatrale. Mettemmo in scenaGiulietta e Romeo, io avevo il ruolo di Mercuzio. Sentii una sensazione mai provata prima di libertà, di strana felicità. Il mio corpo era come più leggero. Avevo 15 anni».
È stato difficile convincere la sua famiglia borghese che voleva fare l’attore?
«Come tutti i bambini avevo un talento mimetico. Ho raccontato più volte che un giorno, a dieci anni, chiamai a telefono mia nonna imitando la voce di un vecchio zio, ottantenne. Nonna non si accorse di nulla».
Nulla?
«No, chiacchierò, si commosse, alla fine ringraziò zio Carlo della bella compagnia. Quando, con un minimo senso di colpa, lo raccontai ai miei, mi dissero che avevo fatto “una cosa bellissima”. E siccome la nonna si sentiva molto sola, m’invitarono a farlo ancora. E così feci».
Un incoraggiamento ad andare avanti?
«Involontariamente sì, ma anche, per me, la scoperta di un potere mostruoso: poter rubare l’anima a qualcuno».
Quando ha scoperto Pasolini?
«A vent’anni. Fu una folgorazione insieme a quella per Gadda, la mia magnifica ossessione. Fino a quel momento avevo letto poco, non sono stato un lettore precoce, durante l’adolescenza leggevo molti fumetti e cose sportive».
Moro era, per Pasolini, il meno implicato di tutti. Ma comunque figlio del sistema. Lei li accomuna.
Non è una contraddizione?
«La suggestione dell’accostamento nasce dal loro essere, oggi, presenzefantasmatiche. Corpi non pacificati cui non è stata data degna sepoltura e su cui inciampa di continuo la società italiana, per non averci fatto i conti fino in fondo».
Ma cosa li lega?
«La solitudine e l’isolamento dell’ultimo periodo delle loro vite. Muoiono entrambi per mano violenta. Moro è vittima di un tradimento shakespeariano.
Pasolini negli ultimi anni di vita discute disperatamente con tutti,anche con i suoi amici, non si dà pace».
Quelli come Moro però Pasolini voleva processarli.
«E Moro davvero finirà per subire un processo, ma non sarà il processo pubblico alla Dc immaginato da Pasolini. Sarà un processo a porte chiuse, senza testimoni, chiuso con una condanna a morte».
Perché le lettere “dalla prigione del popolo” sono ancora attuali?
«La gente dopo ognirappresentazione mi chiede: “Ma queste cose Moro le ha dette davvero?”. E inizia a riallacciare dei fili che portano fino al nostro presente».
Anche se sono documenti di 45 anni fa?
«Parlano di un’Italia che non c’è più ma portano già il presagio dell’Italia che verrà».
Quindi i suoi spettacoli sono un’operazione di memoria?
«Anche. Ma la memoria del passatoda sola non basta. Quelle parole, attraverso il rito laico ma pieno di mistero del teatro, ci devono portare all’oggi, altrimenti servono a poco. E questa società non la comprendi per nulla se non ti volti indietro».
Perché Bellocchio l’ha scelta per “Esterno notte”?
«Marco è venuto a vedere il mio spettacolo a teatro, mentre stava preparando la serie e ne è rimasto affascinato. Bellocchio è uno deipochi registi cinematografici, insieme a Nanni Moretti e ai fratelli Taviani che frequenta da sempre i teatri».
Sono vent’anni da “La meglio gioventù”.
«Il 3 dicembre, al cinema Troisi, ci sarà una non stop, l’intero film dalle 17 alle 23. Prima e dopo la maratona ci ritroveremo tutti insieme, regista sceneggiatori e interpreti. Insieme ai nostri figli che sono nati nel frattempo. Io sarò a Firenze, ma prenderò un treno per raggiungere tutti. Non posso mancare».
È il film con cui la identificano?
«Ultimamente mi identificano con Moro. All’estero con La meglio gioventù, persino in Giappone. Con Luigi Lo Cascio e Alessio Boni avevamo frequentato lo stesso corso alla Silvio d’Amico. Con Gigi abbiamo anche condiviso casa».
È stato difficile entrare in Accademia?
«Ne presero una ventina, su 600-700 domande. Io inizialmente mi iscrissi a legge, non ero ancora sicuro di voler fare davvero l’attore.
Il limite d’età era di ventun anni, feci il militare, e quando tornai scoprii che avevano alzato l’età per l’iscrizione a 23: i miei anni in quel momento. Lo colsi come un segno».
Qual è il male dell’attore? La precarietà?
«Ci sono tanti interpreti bravissimi che faticano ad arrivare alla fine del mese. Insieme a Unita, l’associazione di attrici e attori di cui faccio parte, siamo riusciti a costruire una legge che prevede un’indennità di discontinuità, riconoscendo la natura intermittente del nostro lavoro.
Questo governo, tradendo i lavoratori, ha stravolto questa legge trasformandola in un’ennesima misura assistenziale».
Non va bene?
«Per niente. Si è trasformata una vera legge sulle politiche del lavoro in un bonus assistenziale, distraendo fondi già stanziati per la legge vera. È una presa in giro di una gravità assoluta».
Cosa la colpisce di questo tempo?
«Che bisogna avere un’opinione su tutto, subito. Le competenze sono diventate un optional. Non c’è più differenza tra uno scienziato e uno che si improvvisa tale, si fa tutto da casa».
Cos’è richiesto oggi?
«Una buona dose di coraggio.
Avverto un’aggressione fisica, verbale, verso le voci fuori dal coro, molto preoccupante».