la Repubblica, 26 novembre 2023
Intervista a Giovanni De Luna
Se gli storici litigano su tutto, sulla data di morte del Novecento regna singolare concordanza. Agiudizio ormai unanime, tracciato per primo da Eric J. Hobsbawm, il secolo breve si sarebbe congedato con il crollo del Muro di Berlino, alla fine dell’Ottantanove. Ma allora perché molti di quelli le cui vite sono spalmate tra XX e XXI continuano a sentirsi ostinatamente novecenteschi? E perché, dopo aver messo in cantina tutti i capisaldi del paesaggio novecentesco come il lavoro, la politica, lo Stato, la violenza, la guerra, abbiamo l’impressione oggi di un terrificantedéjà vu ?A rispondere alle nostre domande è un breve saggio storico di Giovanni De Luna che nelle intenzioni dovrebbe offrirci le istruzioni per ripararci da disincanto, in realtà è una testimonianza malinconica su Che cosa resta del Novecento (titolo del volume pubblicato da Utet). «Il XX secolo sarà stato un brutto secolo», annota lo studioso, «ma è stato comunque il nostro, quello in cui siamo cresciuti, abbiamo amato, gioito, sofferto. Molte delle idee che allora ci sembravano fondamentali sono sparite, ma qualcosa resta. E allora vale la pena di interrogarsi su questa eredità».
Perché a oltre trent’anni di distanza dalla sua fine, ci sentiamo così intimamente ancorati al Novecento?
«È difficile liberarsi da un imprinting così forte come la concezione straripante della politica. Siamo cresciuti nella convinzione che la politica potesse spianare le montagne e costruire l’uomo nuovo, indipendentemente dall’ideologia di appartenenza. C’era una tensione progettuale verso il futuro che noi abbiamo respirato in ogni ambito, interiorizzandola a tal punto che oggi è molto faticoso prendere atto del suo esaurimento».
Poi che cosa è accaduto?
«Noi credevamo di essere dalla parte giusta della storia, credevamo cioè che la politica potesse liberale l’uomo dalla schiavitù di altri uomini, da quella della natura e della religione. Poi la storia ci ha abbandonato, la natura si sta riprendendo le sue rivincite, la democrazia vacilla, la religione sta imprimendo il marchio della confessionalità ai movimenti collettivi: penso alle piazze che oggi gridano Allah Akbar. E quello che ora è venuto a mancare è proprio il progetto rispetto al futuro che aveva caratterizzato il secolo breve».
È dall’estinzione della politica come progetto, che partiranno gli storici futuri per marcare la differenza tra i due secoli?
«Sì, anche perché questo grande investimento progettuale erafondato su una visione antropocentrica del mondo, oggi totalmente messa in discussione.
Così come non è rimasto niente degli altri importanti paradigmi novecenteschi, dal lavoro allo Stato alle guerre. Noi siamo orfani di una sorta di “artificialismo politico”, un termine per dire che siamo orfani della capacità di trasformare uomini e donne e aprire nuovi spazi. È quella dimensione per cui il soggetto collettivo è più importante del singolo individuo. Per questo oggi, in assenza del pronome noi, ci sentiamo un po’ persi».
Però ora tra terrorismo, conflitti, rigurgiti di antisemitismo ci sembra di ripiombare nella notte oscura del secolo scorso.
«In realtà anche le guerre di oggi hanno caratteristiche completamente diverse rispetto ai conflitti novecenteschi che avevano un tratto simmetrico: i contendentierano sullo stesso piano, dal punto di vista degli eserciti e delle bandiere, nel rispetto delle regole del diritto internazionale. Oggi quella modalità è disintegrata. Anche l’attuale conflitto in Medio Oriente vede da una parte uno Stato nazionale e dall’altra il terrorismo islamista. E la guerra nell’Europa orientale, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, vede sì a confronto due Stati nazionali, ma con un ruolo totalmente diverso del mercenariato – un tempo confinato solo alle guerre coloniali – e con i civili che diventano bersaglio esplicito (è successo in Ucraina ad opera dei militari russi). Al dualismo dei conflitti tradizionali è succeduto un pulviscolo di scontri armati in tutto il mondo, in cui non si ha più la possibilità di intravvedere la pace: come se la guerra fosse diventata una condizione endemica della nostra esistenza collettiva, con una politica incapace di trovaresoluzioni».
Si torna a quel tramonto della politica da cui discende anche l’esaurimento di un altro fondamentale caposaldo novecentesco. Perché sostiene che lo Stato è cambiato?
«Se il welfare è l’essenza stessa del modello statuale novecentesco, ossia uno Stato che cura la salute, l’istruzione e la mobilità dei cittadini, abbiamo assistito prima al venir meno di quel modello inclusivo – sostituito progressivamente dal mercato – poi sulla spinta di crisi finanziarie e pandemie al ritorno sì dello Stato, ma questa volta provvisto di caratteristiche completamente diverse: uno Stato escludente che costruisce muri e tra le sue priorità mette non la cura dei cittadini ma la loro sicurezza. Questo non vale solo per l’Italia ma per molti paesi europei e per il Nordamerica».
In queste trasformazioni l’assetto più fragile appare la democrazia. È interessante l’esame di coscienza che lei fa a nome di unagenerazione, quella sessantottina, che non ha considerato la democrazia come bene prezioso da tutelare ma come bersaglio di una lotta tesa a svelare imposture, trucchi e formalismi burocratici.
«Intendiamoci, avevamo tutte le ragioni per essere scettici. Ricordo una lezione di Bobbio sul segreto di Stato, sui confini tra fisiologia e patologia. Quella con cui ci siamo confrontati da ragazzi era una democrazia avvelenata da una dimensione patologica del segreto di Stato: depistaggi, menzogne, uno Stato che copriva i responsabili degli attentati terroristici. Quindi non sbagliavamo a essere diffidenti però non coglievamo la sostanza che va al di là della manifestazione patologica. Ci eravamo dimenticati che la democrazia non ci era stata regalata, ma avevamo lottata per averla, c’era chi aveva perso la vita per questo, e che quindi non nasceva inerme ed estenuata ma carica di progetti e sfide per il futuro. Tutto questo l’abbiamo sottovalutato e quello slogan “né con lo Stato né con le Brigate Rosse” con cui larga parte della mia generazione ha attraversato gli anni Settanta riassume un’incomprensione e una resa che oggi mi appaiono molto colpevoli: l’attuale democrazia malata nasce anche da quella diffidenza antica».
Il suo saggio porta un sottotitolo “Piccolo manuale contro il disincanto” che però mi sembra smentito dall’analisi.
«No, non direi. Riscoprire le radici della democrazia è l’unica vera eredità che possiamo trasmettere al mondo di oggi. La democrazia non come tecnica di governo estenuata ma come elemento di mobilitazione permanente delle nostre coscienze.
Questo possiamo non solo testimoniarlo ma anche farne parte attiva di una militanza che ora mi appare più che mai necessaria».