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 2023  novembre 25 Sabato calendario

Andrea Bonomi racconta la nonna Anna Bonomi Bolchini

Per tutti era Lady Finanza: il Pirellone, l’edificio più alto in Europa negli anni Sessanta, è nato da una sua idea. Milanocentrica con convinzione, ma con l’intuzione di dover costruire un polo abitativo (San Felice) «fuori dalla cerchia dei Navigli», battuta con la quale liquidò l’idea scherzosa di matrimonio dell’amico cementiere Pesenti, giudicato, appunto, troppo poco milanese per maritarsi con lei. Il quartiere satellite di Milano – «osservato speciale» da Silvio Berlusconi, che lo replicò pari pari qualche anno dopo con Milano 2 – è stato uno dei suoi figli, insieme ad aziende come Miralanza, Rimmel, Durbans, Saffa e alle banche (Credito Varesino e la Fingest). E poi Postalmarket, la distribuzione postale della moda, ben prima che arrivasse Amazon. Perché una sciura rimane tale anche quando maneggia i bilanci, e la sciura in questione amava gli abiti di Mila Schön e i gioielli importanti che si comperava da sola.
Tutto questo ben prima che del glossario comune entrassero a far parte termini come quote rosa e parità di genere: Anna Bonomi Bolchini nasceva a Milano il 23 novembre del 1910 e nel ventennale della sua scomparsa viene ricordata da un libro scritto dal docente di Storia economica della Bocconi Andrea Colli, con prefazione di Paola Severino e postfazione di Emma Marcegaglia – due ideali epigoni – e da un convegno in Bocconi lunedì prossimo promosso da Investidustrial Foundation, presieduto dal nipote Andrea Bonomi.

Andrea Bonomi, che persona era sua nonna?
«Una di quelle che gli inglesi definirebbero larger than life, persone fuori dal comune. Mia nonna era diversa dalle altre donne che ho conosciuto».
In cosa era diversa?
«Era diretta, parlava chiaro. Cerco di fare lo stesso, imitandola. Nel suo testamento ha scritto: “Sono Anna Bonomi. Ho 92 anni. E dico sempre la verità”».
Il convegno si intitola: «Anna Bonomi Bolchini: affermazione, crescita e futuro della leadership femminile». In cosa era leader?
«Di lei dicevano: “Non legge i bilanci, li annusa”. Aveva intuito e capiva le persone al volo. C’è un episodio che la racconta: Mario Faccioli, il suo salumiere, le confidò la delusione di non avere i soldi per acquistare il negozio a fianco, Cova. Mia nonna il giorno dopo tornò da lui con tre assegni del valore di 3 miliardi. Che poi lui le ha restituito».
Una vita adulta di onori, un’infanzia dickensiana.
«Mia nonna è nata dall’amore del padre, Carlo Bonomi, erede di una importante famiglia di immobiliaristi diventati ricchi grazie alle esattorie, con la signora Maria Gironi, che faceva la portinaia in uno stabile di corso Indipendenza 23. Fino a 9 anni ha vissuto in portineria, poi si è ammalata di polmonite e il padre l’ha voluta in casa. Nel frattempo l’ha fatta studiare alle Marcelline e a 16 anni le ha intestato una villa sul Lago di Como, progettata da Mino Fiocchi dove si è trasferita con la madre».
Le raccontava di quel periodo in portineria?
«Mai, ma non perché ne provasse vergogna. All’epoca quando ti volevano denigrare ti dicevano che eri figlio di un portinaio, oggi per fortuna non succede più. Ha amato molto la madre e onorato il padre, che a 18 anni l’ha adottata, facendola diventare la sua unica erede e scatenando una guerra tra fratelli. Mentre la famiglia scelse di essere difesa dal gerarca fascista, loro si affidarono a un giovane avvocato promettente, Francesco Carnelutti. E alla fine la spuntarono».
Il primo ricordo insieme?
«Vivevamo tutti in via Bigli 9, la casa era frazionata per tre, lei era al centro: era il nostro riferimento».
Che consigli le dava?
«Era convinta della superiorità delle donne senza essere femminista. Ugualmente era conosciuta internazionalmente, ma rimaneva milanese e sostenitrice dell’Italia: le raccontavo della difficoltà che incontravo per il fundraising del mio primo fondo di private equity, mentre provavo a smarcarmi dal fatto di essere italiano, con le nostre instabilità politiche. Mi suggerì di non perdere più tempo: “Devi essere fiero di essere italiano, gli altri credono in te, sennò non starebbero al tuo tavolo”. Da quel giorno ho smesso di fare preamboli».
Tenne fuori dalla casa di Portofino persino Churchill.
«Gli disse: “Se vuoi incontrare me entra, se ti interessa vedere la casa no”. L’aveva acquistata per far respirare l’aria buona ai figli. Aveva voluto la più speciale, senza garage, né piscina, che poi ha fatto costruire. Le altre erano belle case, ma dimenticabili, quella era un castello. Per sistemarla ha chiamato Tomaso Buzzi e il paesaggista Pietro Porcinai».
C’era voglia di rivincita?
«Forse sì. Il suo budget dei regali natalizi era molto importante. Era un po’ texana: gente con molta voglia di intraprendere e con molto più coraggio».
Le sarebbe piaciuta la Milano verticale?
«Molto, dopo il Pirellone tutto si era bloccato. Amerebbe l’energia di Milano».
Scommetteva sui giovani?
«Luigi Caccia Dominioni si propose a lei come architetto. La nonna gli disse: “Progetta la cucina, dovrai vedertela con Tomaso Buzzi e Renzo Mongiardino”. Se dava una chance lo decideva in 30 secondi».
Un insegnamento. «Mi diceva: “Paga sempre la tua Coca Cola”. Era indipendente e perfetta in ogni occasione. Aveva la regola di arrivare in anticipo, magari aspettava in auto. Viveva tra uomini che la consideravano alla pari».
Il rapporto con Sindona, con il quale si scontrò sulla Generale Italiana? «Sicuramente non negativo, deal specific, legato agli affari. Lo stimava, diceva: “È furbo come un gatto”».
Silvio Berlusconi?
«Mi ricordo quando tentava di convincerlo a far indossare in tivù i capi del suo Postalmarket a Lorella Cuccarini. Aveva già in mente il meccanismo delle influencer...».
Il suo angolo di femminilità?
«Il centro era la famiglia, come tutte le donne faceva sei lavori insieme».
Che tipo di madre è stata per i tre figli?
«In teoria perfetta, in pratica impegnativa. Non è facile avere in mano un iPad se tuo padre è Steve Jobs...».
Cosa le ha regalato?
«Un orologio del mio bisnonno. Era molto generosa».
Una parola in milanese?
«Tusa, ragazza. Quando parlava in milanese ti definiva, era fulminante».
Chi erano le sue amiche?
«Mila Schön e la Enrichetta Invernizzi: per impressionarla si fece costruire una tenda da sole nella Tenuta della Rosina, nonostante gli operai la sconsigliassero e che funzionò per la sola volta che venne...».
La politica la tentava?
«La sua casa era molto frequentata da politici, ma lei non ci ha mai pensato».
È stata una delle prime donne Cavaliere del Lavoro.
«La Rai mandò in onda il servizio annunciando i nomi: “C’è anche una donna...”».
In Bocconi presenterete 18 borse di studio da assegnare a ragazze meritevoli.
«Proseguiamo quello che mia nonna fece con le Carline, l’istituto creato nel 1941 in memoria del padre, con il quale aiutava le ragazze a emanciparsi. Anche noi seguiremo le borsiste negli studi, offrendo anche vitto e alloggio».
Cosa era la beneficenza per sua nonna?
«Non la chiamava così, lo riteneva un dovere».
Lei è legato come sua nonna a Milano?
«Molto. Per me rappresenta una mentalità vincente, sia in Italia che nel mondo».
Cosa direte alle donne con il convegno in Bocconi?
«Che le vittorie ottenute finora erano dovute. Adesso è il momento di scardinare le statistiche, che ci parlano di sperequazioni di salario e di carriera tra uomini e donne».
E puntate su un ateneo italiano.
«Quando ero giovane era di moda andare in America: young man, go West. Ma la reputazione di Milano è altissima e la nonna ne era convinta».