Corriere della Sera, 26 novembre 2023
Il fallimento dell’Onu
Che cosa è andato storto nel mondo? Prima la pandemia, che ha rivelato le debolezze dell’Organizzazione mondiale della sanità. Poi due conflitti bellici nel teatro europeo, focolai che potrebbero diventare incendi. Riprendono vita gli Stati e i conflitti bellici tra Stati, che richiederebbero una autorità superiore, mentre la tanto decantata globalizzazione è assente. Gli scambi si frammentano con una diversificazione delle catene globali del valore, per porle al riparo della vulnerabilità politica. Ritornano in auge le politiche industriali, lo Stato finanziatore, le guerre dei sussidi. Il sistema mondiale rivela tutte le sue debolezze.
Una foto come quella di Yalta del 1945, con Roosevelt, Churchill e Stalin seduti l’uno accanto all’altro non sarebbe più possibile. L’ordine pensato a San Francisco nel 1945 si è rivelato illusorio.
L’ Organizzazione delle Nazioni Unite, utile come luogo di dibattito e come tribuna degli Stati, si è mostrata inefficace come organo di decisione: lo si è notato nella divaricazione tra Assemblea generale e Consiglio di sicurezza a proposito dell’aggressione russa all’Ucraina.
Ci si era illusi che non vi sarebbero più state guerre. Invece, secondo calcoli recenti, sarebbero ora in corso ben 59 guerre, e i conflitti armati nel decennio scorso sono stati 388, anche se hanno perduto progressivamente forza distruttrice, misurata in termini di morti. Nel periodo che va dal 1945 ad oggi è stato un succedersi di guerre prodotte da dispute territoriali, tensioni tra Stati, terrorismo, instabilità politica, come il conflitto arabo-israeliano del 1948-49, la guerra di Corea nel 1950-53, quella del Vietnam nel 1964-73, quella dei Sei giorni del 1967, quella del Kippur nel 1973, quella tra Iran e Iraq nel 1980-89, quella delle Falkland nel 1982, quella del Golfo nel 1990-1991, quelle jugoslave nel 1992-95.
Ora non riusciamo neppure a distinguere tra operazioni di polizia, quali quelle contro il terrorismo, e operazioni belliche, come accade nel conflitto Hamas-Israele. Le prime si svolgono normalmente sul proprio territorio, con mezzi blindati, ma non con carri armati ed aerei, sono mirate a un ristretto numero di persone, rispettano il principio di proporzionalità e di protezione dei civili. Tutto questo non accade nel conflitto in corso, tanto che c’è chi pensa che questo avvenga per far diventare impossibile un accordo e per chiudere la porta all’intesa tra Israele e Arabia Saudita.
Quali sono le cause di questo fallimento dell’ordine mondiale disegnato al termine del secondo conflitto mondiale? Innanzitutto, una eccessiva fiducia nella «low politics», nei duemila sistemi regolatori globali che uniscono gli Stati per provvedere ai settori più diversi, dall’uso delle risorse marine ai commerci, alla salute, al lavoro, ai sistemi di pagamento, al traffico aereo, alla pesca negli oceani, e così via. L’idea che questi legami potessero produrre un mondo più ordinato agendo come stanze di compensazione settoriali, e consentendo e favorendo l’intreccio tra interessi nazionali e interessi globali è tramontata.
Poi, le troppe speranze e aspettative riposte nelle catene globali del valore e nell’idea kantiana che il reciproco interesse prodotto dallo sviluppo dei commerci potesse assicurare una pace sistemica (cioè non una pace tra due guerre), perché tra chi commercia non si accendono conflitti bellici sono state deluse.
In terzo luogo, la prevalenza, tra politici e studiosi, del realismo e l’assenza di utopie: per troppo tempo sono stati dimenticati programmi di tipo universalistico, sono mancati riformisti giudiziosi e realistiche utopie. Per avere un termine di paragone, bisogna ricordare che, a cavallo della Seconda guerra mondiale, furono redatte circa 50 proposte di costituzioni mondiali, tra cui quella notissima promossa da Giuseppe Antonio Borgese e dall’Università di Chicago, che ebbe una premessa di Thomas Mann e fu presentata in traduzione italiana da Piero Calamandrei.
Infine, la pretesa, maturata in particolare nell’Occidente, che valori quali la libertà, la democrazia, il merito potessero essere declinati in un unico modo, quello sperimentato in Europa e negli Stati Uniti, senza riconoscere che essi possono manifestarsi in modi diversi, in relazione ai contesti, alle culture, ai costumi. È stata sottovalutata l’importanza del riconoscimento delle differenze e del timore delle omologazioni, tanto pi ù difficili in un momento nel quale i Paesi che si sono rivelati maestri della democrazia e delle libertà nel mondo, come il Regno Unito e gli Stati Uniti d’America, mostrano tutte le difficoltà delle democrazie mature. Qui stanno anche le ragioni di quella che è stata chiamata la rabbia musulmana, che reagisce a questa imposizione di modelli comuni, senza riconoscere quel principio così ben formulato nel motto dell’Unione europea, «unità nella diversità». Insomma, le diverse parti del mondo, unite da alcuni obiettivi comuni, quali il mantenimento della pace, il rispetto dell’ambiente, il riconoscimento di libertà e democrazia, debbono poter declinare questi principi in modo diverso, ciascuno rispettando l’altrui diversità. È singolare che democrazie mature, che hanno coltivato al loro interno autonomie e differenziazioni, abbiano commesso un errore così grande, quello di non riconoscere, all’esterno, l’importanza della tutela delle differenze, che suscita il timore delle omologazioni, e di non ricordare la massima di Thomas Jefferson in tema di religione: «divisi vinceremo, uniti cadremo».
Qualche anno, fa un grande economista ha fatto la previsione che una crisi economica mondiale sarebbe riapparsa quando sarebbero scomparsi quelli che avevano vissuto la precedente crisi. Può succedere la stessa cosa per la guerra.