Robinson, 19 novembre 2023
Intervista a James Ellroy
L’età dell’innocenza non è ma esistita, né in America né altrove; e persino nl Vangelo insegna che gli uomini preferiscono le tenebre. Non sorprende che James Ellroy abbia una visione del mondo così cupa, e ho citato i libri sacri perché questo formidabile scrittore ci tiene a defnirsi cristiano, e conosce il passaggio in cui è Gesù in persona a dichiarare che il principe del mondo è il diavolo. Con la stessa visione cupa del mondo, Ellroy ha contribuito a demolire il sogno americano, partendo da uno dei suoi culti più venerati, quello di John Fitgerald Kennedy, ucciso a Dallas il 22 novembre di sessant’anni fa. Lo ha fatto raccontando in Anerican Tabloid il lato oscuro di una presidenza ancora popolarissima, soprattutto per il suo glamour e per la morte tragica di JFK. Con il magnifico The Encounters, che Einaudi pubblicherà in primavera, torna ancora a quegli anni e a quell’America, ritraendo un mondo torbido e disperato, nel quale il sogno americano assume i contorni dell’incubo e dove, per dirla con Bob Dylan, l’unico colore è il nero. Ogni scrittura è percussiva e jazzistica, e diviene tanto più raffinata quando ripropone lo slang volgare e violento dei bassifondi. La conraddizione per Ellroy è un segno di umanità, e la verità, sempre fragile, è pronta a mutare: obbediscono alla stessa logica dichiarazioni provocatorie e contradditorie, ad esempio in politica, dove l’unica cosa certa è che è un ammiratore di Ronald Reagan: non ha mai smentito di essere la persona al mondo che odia maggormente Hillary e ha ritratto Obama come un «roditore con marsupio», ma ha dichiarato di averlo votato, salvo poi negarlo. Non è del tutto ostile a Trump, che tuttavia «non ha lo charme di un vero dittatore».
Si potrebbe continuare a lungo, chiedendosi dove termina la provocazione e inizia la realtà, ricordando anche il monologo con cui dà l’avvio ai suoi incontri pubblici: «Buonasera guardoni, pederasti, delinquenti, annusatori di mutande, nullità, magnaccia (…) i mei fottuti libri sono per tutta la famiglia, se il nome della vostra famiglia è Manson».
Il protagonista di questo romanzo è ancora una volta Fred Otash, intorno al quale appaiono altri personaggi realmente esistiti quali Marilyn Monroe, Jimmy Hoffa, Edgar J. Hoover e i Kennedì, comparsi già in passato e condannati a rivivere, come tutte le sue ossessioni. È una città di angeli caduti, la Los Angeles di The Encounters, nella quale, durante un’ondata di caldo torrido, si dipana una vicenda costruita sul crinale tra realtà e fantasia, mentre le teorie del complotto si alternano allo squallore del mondo dei tabloid scandalistici: Otash, che scambiava informazioni con Confidential, la rivista su cui Ellroy ha scritto alcune delle sue pagine più memorabili, è stato l’ispirazione per il personaggio di Jake Gittes in Chinatown, un poliziotto diventato investigatore privato in un mondo avvolto nelle tenebre sopra il quale forse esiste un Dio che consola e punisce.
«Consola, non so», mi corregge, alzando la voce, «punisce, me lo auguro».
Il periodo in cui è ambientato The Enchanters corrisponde a quello della presidenza di Kennedy e poi al suo omicidio…
«Non è stato l’unico presidente “accoppato”: JFK è stato il quarto, senza contare gli attentati non riusciti a presidenti come Reagan o Teddy Roosevelt. Vogliamo parlare ancora di innocenza?».
Sono passati sessant’anni da Dallas. Che cosa pensa davvero di JFK?
«Quando sento parlare della Camelot americana mi viene da vomitare, fermarsi alla superficie glamour significa non voler capire l’America».
Nel suo romanzo, Fred Otash viene assunto da Jimmy Hoffa con il fine di gettare fango sui Kennedy per vendicarsi delle indagini di JFK e del fratello Bob sul sindacato controllato da Hoffa: anche questa è una sua invenzione?
«Si tratta di una verità ed esiste un documentario della Bbc che lo racconta con molta accuratezza».
Nel romanzo Otash ha una relazione con Pat Kennedy.
«Non le rivelo se questo è vero, ma è certo che Peter Lawford, marito di Pat, procurava le donne al cognato presidente di cui celebriamo la fottuta Camelot».
Le indagini collegano la morte di Marilyn e il mondo del porno e della pedofilia: che c’è di vero?
«Marilyn ha visto molto da vicino il fango di Los Angeles».
Viene messo in atto anche un tentativo di ricattare JFK, il quale sarebbe stato pronto a divorziare da Jackie per sposare Marilyn.
«Che Marilyn ci abbia provato lo darei per certo, ma JFK non era così pazzo».
Il romanzo rievoca la morte di Marilyn: perché è così attratto da quel periodo e da quell’episodio?
«Chiariamo subito che non sono affatto attratto da Marilyn. La trovo una pessima attrice e non mi piace come persona: sono d’accordo con Arthur Miller che una volta la definì un mostro. Per quanto riguarda la sua morte, le indagini che hanno derubricato l’avvenimento come suicidio fanno acqua da tutte le parti, e ci vuole molta idiozia per credere a quella che è diventata la storia ufficiale. Marilyn è morta quando io avevo quattordici anni e l’episodio ha sconvolto la mia esistenza come quella di tutto il mondo del cinema: ho un ricordo fisico, palpitante di quei giorni».
Perché è ossessionato dagli anni Sessanta?
«Oltre alla morte di Marilyn, ho vissuto quella di JFK l’anno successivo, e poi a venti anni, quella del fratello Robert, per non parlare di Martin Luther King. Morti violente che insieme a quella di mia madre hanno plasmato la mia formazione».
Che ragazzo era a quei tempi?
«Solitario, pieno di dolore e rabbia per l’assassinio di mia madre. Leggevo tanti libri di cattivo gusto».
Quali erano queste letture?
«Harold Robbins, che in quel genere è un maestro pop, e poi anche Irving Wallace: ricordo che rimasi molto colpito da Foeminae. Poi ho cominciato praticamente a vivere in un negozio di alcolici di Hollywood dove ho bevuto di tutto e in quantità industriale. In quel periodo mi sono appassionato alla letteratura hard boiled e alla
pulp fiction, attirato in primo luogo dalle copertine: erano meravigliose e mi immergevano immediatamente in un mondo. Ai giorni nostri soltanto Chip Kidd ha lo stesso genio creativo».
Torniamo a Marilyn: nel libro è irriconoscibile per le iniezioni di collagene sul volto.
«La Marilyn del mito era totalmente costruita e molto diversa dalla persona reale. Questo era parte del suo dramma».
La sua morte coincide con il momento in cui cominciano a decadere gli studios, come se la fine del sogno americano coincidesse con la crisi dello studio system e in generale di Hollywood.
«Noi siamo bravissimi a creare illusioni, che però muoiono quando entra in crisi il sistema che le ha generate. Sono gli anni in cui viene girato Cleopatra, uno dei più grandi fiaschi della storia del cinema che ha rischiato di far saltare la Twentieth Century Fox. A rivederlo oggi meritava quel disastro».
Nel libro i poliziotti sono corrotti, per non parlare della politica o dei sindacati: lei ha fiducia nelle istituzioni?
«(Scoppia a ridere rumorosamente). Diciamo che, cercando con molta ostinazione, si riesce anche a trovare qualche eccezione».
Un’attricetta viene rapita da uomini che indossano la maschera di Fidel Castro.
«L’America di Kennedy era ossessionata da Castro e ho voluto inventare dei banditi che utilizzavano la sua effige, ma si tratta di una mia creazione».
Il romanzo ha in esergo il Salmo 30: «Fa’ splendere il tuo volto sul tuo servo, salvami per la tua misericordia. Signore, ch’io non resti confuso, perché ti ho invocato; siano confusi gli empi, tacciano negli inferi».
«Mi ha sempre colpito la preghiera di non restare confuso. È un passaggio che parla alla mia intimità, come anche la preghiera che siano confusi gli empi e tacciano all’inferno: non è stupefacente la pena del silenzio per i malvagi?».
Lei crede in Dio?
«Sì».
E prega?
«Certo, altrimenti che credente sarei?».
Che ruolo ha la sua fede in questo romanzo?
«Se una persona è credente, la fede ha un ruolo in ogni sua azione. In The Enchanters bisogna partire dal fatto che Fred Otash è un criminale e un assassino, ma è anche religioso. La sua contraddizione esistenziale lo rende un personaggio profondamente umano e per me irresistibile. E intorno a lui ruotano personaggi moralmente molto peggiori come il serial killer Sex Creep».
Cosa l’attira in particolare di Fred Otash?
«Innanzitutto l’ho conosciuto di persona e ne ho visto da vicino i lati oscuri. Nei libri precedenti Freddy compariva come non protagonista, quasi come un caratterista, e in quel caso ho sviluppato i suoi lati comici, mentre in The Enchanters prende il centro del palcoscenico e diventa un personaggio tragico».
Si tratta di una conseguenza inevitabile?
«Certamente per Freddy».
La massima di Fred Otash è «l’opportunità è amore». È anche la sua?
«Non necessariamente, ma dobbiamo intenderci su cosa vogliamo dire con opportunità: io penso a molte cose diverse come l’incontro con una donna, la possibilità di fare soldi, la ricerca della felicità».
Lei si dichiara felice, nonostante i drammi che hanno costellato la sua esistenza.
«È proprio così, non ho mai accettato la malinconia e
ignoro la depressione».
Tuttavia i suoi libri esprimono sconcerto per la violenza e il male: un suo titolo molto evocativo parla persino di “Sangue sulla luna”. Si ricava la sensazione di un approccio segnato in primo luogo dal nichilismo.
«Innanzitutto è un titolo fottutamente bello. Per quanto riguarda il nichilismo, penso che non credere in nulla sia un modo di riconoscere che esiste qualcosa di più importante che non vediamo».
Lei dedica molte pagine al serial killer soprannominato Sex Creep: nei suoi libri il sesso è spesso legato indissolubilmente alla morte.
«Non è certo una cosa che ho inventato io, è dai tempi dell’antica Grecia che le due cose sono intrecciate.
Posso aggiungere che anche drammaturgicamente si tratta di un intreccio efficace, come la tensione che genera nel lettore la voglia di veder friggere sulla sedia elettrica un personaggio come Sex Creep».
Lei cita spesso la battuta: «voglio trovare il tipo che ha inventato il sesso e chiedergli su cosa sta lavorando ora».
«È una battuta antica come l’umorismo, che a me piace anche perché sottintende gli elementi ridicoli del sesso».
In un’intervista del 2014 ha dichiarato: «Sono un americano religioso, eterosessuale di destra, sembra quasi che sia nato in un’altra epoca. Non penso che il mondo collasserà a breve, non penso che l’America sia una forza diabolica, ma penso che l’America prevarrà nel mondo della geopolitica. Sono un cristiano nazionalista, militarista e capitalista». È qualcosa che pensa tuttora?
«Sì, a patto che pesiamo bene ognuna delle parole: sul cristiano ho già risposto, per nazionalista intendo l’orgoglio per il mio Paese, simile a quello che lei può avere per l’Italia. Il capitalismo ha enormi limiti, ma ogni altro sistema si è rivelato peggiore. Per militarista intendo il diritto a proteggersi e se necessario usare la forza. Avere idee di destra ovviamente ha la stessa dignità di averle di sinistra: si tratta di due modi diversi di vedere il mondo. Se avessi dichiarato il contrario, pochi si sarebbero stupiti, e questo la dice lunga su come una parte si senta superiore all’altra, il che è un problema serio per la democrazia. Infine, oggi si tende ad attribuire ogni male all’America e questo è ridicolo, come la previsione della sua imminente caduta. È qualcosa di cui si parla dalla sua fondazione».
Che cosa è rimasto del sogno americano?
«Nulla, perché non è mai esistito, come non è mai esistita la sua innocenza. L’unica cosa che continua a perdurare è la sua vitalità, e non è poco».
Cosa ha rappresentato il 22 novembre 1963?
«La presa di coscienza di una realtà cupa e violenta, e del fatto che il nostro Paese non è, come invece pretendeva, diverso dagli altri».
Perché JFK per molti continua a essere un mito?
«Perché gli esseri umani di ogni latitudine ne hanno bisogno. E proprio perché sono miti non hanno nulla a che fare con la realtà».
Lei ha dichiarato: «Il mio grande viaggio tematico è la storia del Ventesimo secolo, e cosa penso che sia in realtà: la storia di uomini bianchi malvagi, soldati di fortuna, impostori che si fingono artisti, ricattatori, spezzaginocchia. Il livello più infimo dei personaggi sulla scena della vita pubblica. Uomini che spesso leccano i piedi ai regimi di destra. Razzisti, omofobi.
Questa è la mia gente. Questa è la gente che abbraccio».
«Più che una storia del Ventesimo secolo oggi direi una storia di Los Angeles, ma credo che a lei interessi la seconda parte della dichiarazione: per i loro intrighi violenti questi personaggi sono drammaturgicamente imbattibili e soprattutto sono esseri umani. Questo è il motivo per cui li abbraccio».
Cosa risponde a chi l’accusa di essere misogino?
«Fuck you daddy’o!».
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