il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2023
Sgarbi mercante d’arte: debuttò nel ’79 ingannando una contessa
C’è una storia che tormenta Vittorio Sgarbi fin dai suoi esordi tv, quando era funzionario della Soprintendenza del Veneto e ben prima di essere condannato per assenteismo. Anno 1988: va all’asta da Finarte la “Cena in Emmaus” di Agostino da Lodi (1470-1519), per 850 milioni di lire. Era lo stesso quadro che pochi anni prima, nel 1985, Sgarbi aveva reclamizzato sulla rivista FMR come una sua “scoperta”, un quadro “perduto”, individuato nei depositi dei Musei civici di Treviso nel 1979. Nonostante fosse stato notificato dal 1930, lo Stato non sapeva in quel momento, secondo Sgarbi, dove si trovasse. Sgarbi, che era funzionario di Soprintendenza, si mise alla ricerca del proprietario del quadro, la contessa Pia Bressanin della Rovere, che lo aveva dato in custodia ai Musei civici di Treviso nel 1973: la individuò, scrive, “sola, senza assistenza, aveva abbandonato la sua casa e si era ricoverata in un ospizio per anziani”. In realtà, l’anziana signora stava piuttosto bene, si trovava in un albergo di livello, e il quadro era noto alla Soprintendenza dall’anno prima. Nel 1979 la contessa riceve la visita di due uomini che vogliono parlarle del dipinto: sono Sgarbi, che non era funzionario a Treviso, ma aveva un incarico ad hoc del Soprintendente per un’ispezione nei depositi del museo, e Lucio Puttin, l’allora facente funzioni come direttore del Museo Civico, che nel 1986 si suiciderà a causa di voci che lo accusavano di aver contribuito al trafugamento di materiali dalle collezioni civiche: l’inchiesta aperta finì archiviata.
Torniamo al 1979. “Nei depositi trovammo un grande telero, che mostrava chiaramente di essere, nonostante l’incuria, ben conservato, sostanzialmente integro”, scrive Sgarbi nel 1985. Alla contessa però raccontarono di un quadro in condizioni terribili, al punto da rischiare di non esistere più, e che dati i grossi costi di restauro sarebbe stato meglio venderlo. Come che sia, Sgarbi lo segnalò allora al regista Mario Lanfranchi per l’acquisto. Poco dopo la contessa lo manda a restaurare e lo vende per 8 milioni di lire, dice lei, per 25 secondo Sgarbi. Lanfranchi agli atti pagò 25 milioni. Poi il quadro passa, nel 1985, per 250 milioni a Leonardo Mondadori, e poi nel 1988, attraverso la casa d’aste Finarte, all’avvocato ticinese Marco Gambazzi, per la sopracitata cifra di 850 milioni di lire (inizialmente si parlò di 700). Cifra che attirò l’interesse dei media, dato che lo Stato, nel 1979, quando ancora il prezzo era basso, non ebbe i tempi tecnici per esercitare il diritto di prelazione (“per i soliti ritardi burocratici” spiegò anni dopo Sgarbi).
La vicenda fu raccontata nel 1988 sul manifesto da Franco Miracco, che parlò con una Pia Bressanin della Rovere che aveva la sensazione di essere stata ingannata. Seguì una lunghissima risposta di Vittorio Sgarbi, che negò qualsiasi imperfezione nel suo lavoro, e raccontò la sua visione: “Per i moralisti è meglio uno Stato disinteressato alla conservazione dei suoi beni che non un privato che se ne curi”. Non spiegò però perché si recò quel giorno ai Musei di Treviso al posto dei colleghi funzionari d’area preposti, e perché un funzionario statale dovrebbe segnalare un quadro a un privato compratore. E non spiegò perché nella sua difesa notò che i 700 milioni del 1988 potrebbero essere stati “una finta vendita promozionale e pubblicitaria”, fatto comune nel mercato dell’arte, ma che figurerebbe un reato. Vittorio Sgarbi nel 1989 durante il Maurizio Costanzo Show arrivò ad augurare “la morte” al grande storico dell’arte Federico Zeri, colpevole di aver dato credito alle accuse della contessa trevigiana. Seguirono interrogazioni parlamentari e l’apertura di un’indagine per interesse privato in atti d’ufficio, presto archiviata per prescrizione. Oggi la “Cena di Emmaus” è nella collezione del finanziere Francesco Micheli, presidente di Finarte con Gambazzi vice alla fine degli anni 80, che di Sgarbi è amico e collaboratore.
Sgarbi lavora invece ancora per quello Stato che non ha mai smesso di definire “latente” rispetto ai compratori privati.