La Stampa, 23 novembre 2023
Biografia di Napoleone raccontata da Ernesto Ferrero
Oltre il vetro c’è Ernesto Ferrero. Sorride sereno, elegante e gentile. È il 21 ottobre 2021 – il Trafalgar Day, guarda caso – una tiepida giornata d’autunno. Nello stretto studio di registrazione de La Stampa le cuffie gli danno un po’ noia, ma il piccolo fastidio non stempera la luce accogliente dei suoi occhi. Si deve parlare del Signor Bonaparte e di Mister Napoleone. L’intervista è destinata al sito internet per il piacere dei giovani di ogni età. «Sono pronto», si dichiara. Seguono ventuno minuti di domande e risposte catturate da un file che, quel giorno stesso, sparirà per colpa di un capriccio dell’intelligenza naturale. Due anni più tardi, rieccolo. Troppo tardi per farlo sentire a Ernesto che ci ha lasciato più soli lo scorso ottobre. Ma ancora in tempo perché il contributo del grande scrittore, appassionato narratore e studioso di storia napoleonica, autore del best seller N, possa finalmente essere condiviso con i lettori.
Per cominciare, Ferrero, lei ha scritto che Napoleone non era italiano.
«I Bonaparte erano dei piccoli nobili toscani di San Miniato e Sarzana, forse addirittura originari di Treviso, in Corsica dal 1512 al servizio del Banco di San Giorgio, perché la Corsica era genovese. Il padre Carlo è uno dall’aria elegante, sempre a caccia di relazioni utili, un po’ frivolo, spendaccione, troppo dedito al gioco d’azzardo. La madre, Maria Letizia Ramolino, è invece un condensato di virtù repubblicane, forte, coraggiosa, austera, religiosa, economa, svelta di mano, saggia e previdente: insomma, ha tutte le qualità e Napoleone dirà che “l’avvenire di un figlio dipende dalla madre"».
Come mai uno nato in questo tipo di famiglia intraprende la carriera militare?
«Perché non poteva fare altro. I Bonaparte prima si schierano con Pasquale Paoli, che era il padre della Patria che si batte per l’indipendenza dell’isola, ma quando capiscono che c’è poco da fare, scelgono la Francia. Al giovane Napoleone, rimasto orfano di padre a soli quindici anni, non resta che la carriera delle armi. Va in Francia nel collegio militare di Brienne. È una esperienza molto dura: è solo, deriso da tutti, un po’ bullizzato perché parla male, è un provinciale, ispido come un riccio. Saranno anni di solitudine, ma formativi».
Nonostante tutto, si dimostra un soldato straordinario. Quali doti lo fanno affermare?
«È uno che si prepara molto. Ha il pallino della matematica e della geometria. Studia e dà il meglio di sé come artigliere alla presa di Tolone che è difesa dai monarchici e dagli inglesi; lì viene notato da Barras, che è un potente dell’epoca. A Parigi diventa amico del fratello di Robespierre, ma si fa notare soprattutto perché viene incaricato di sedare i tumulti dei monarchici, cosa che fa con una forza e una decisione tali da farsi nominare, giovanissimo, generale del corpo d’armata dell’interno».
Se fossimo nella Parigi di allora, sarebbe un piacere andare a cena con lui?
«A cena proprio no. Mangiava velocissimamente, in dieci minuti, non poteva perdere tempo a tavola. Era però uno che ascoltava molto. Faceva parlare gli altri, era piuttosto laconico. Quando parlava emetteva questi aforismi perfetti, direttamente in bella copia, memoriali al punto da sembrare scritti in latino e tradotti da lui».
"Tuittava”, si direbbe ora. Comunque sia, parte alla conquista dell’Italia, la prima grande campagna. Qual era la sua arma segreta?
«Anzitutto la motivazione degli uomini. Gli affidarono una armata scalcinatissima, priva di tutto. L’Italia doveva essere un diversivo rispetto al fronte del Reno. Ma lui sa caricare i suoi uomini e imprimere alla guerra, che era piuttosto statica e ritualizzata, ritmi che nessuno aveva mai visto: con marce forzate di almeno 40 chilometri al giorno sorprende il nemico, sconfigge prima i piemontesi e poi gli austriaci, entra a Milano, dopo una campagna trionfale che lo rivela a sé stesso e finisce per arrivare quasi alle porte di Vienna».
Nel frattempo, sposa Giuseppina, la vedova di un ufficiale ghigliottinato durante la rivoluzione. Com’era con le donne, Napoleone?
«Come tutti gli uomini della sua generazione, Napoleone ha una concezione della donna non particolarmente brillante. La donna è il trastullo, lo svago del guerriero che deve fornire figli per l’impero. Per il resto, è potentemente subordinata ai mariti. Subisce il fascino di Giuseppina che è più vecchia di lui di sei anni. È stata l’amante di Barras che gliela ha un po’ rifilata, ma è innamoratissimo di questa moglie che sfolgora nei salotti della capitale e all’inizio lo tradisce in mondo plateale: quando torna dall’Egitto, vorrebbe divorziare; lei si spaventa moltissimo, e da lì in avanti gli resterà fedele e lo aiuterà molto a gestire il consenso».
Non sarà l’unica donna della sua vita…
«A parte le prede estemporanee che trovava a corte, le relazioni importanti sono con Maria Walewska – una giovane contessa polacca che all’inizio rifiuta la corte perentoria dell’imperatore ma poi gli si affeziona e gli darà un figlio – e, dopo il divorzio da Giuseppina che non può assicurargli un erede, il matrimonio con Maria Luisa, diciottenne figlia dell’imperatore degli Asburgo, un ragazza fresca e un po’ ingenua che si rivelerà una brava amministratrice nei momenti difficili del 1814, anche se fatalmente non lo seguirà all’Elba e cederà alla corte serrata dell’ufficiale che è stato incaricato di ricondurla a casa».
Va in Egitto nel 1798. Pare che l’idea fosse di arrivare in India…
«L’Egitto è un diversivo. Il direttorio vuole allontanare Napoleone dalla scena politica, perché la sua fama e la sua popolarità sono divenute ingombranti. Si punta anche a mettere degli ostacoli alle vie di comunicazione inglesi verso l’India. A lui questa cosa piace molto. Dice che l’Europa è sostanzialmente una topaia, una tana di talpe. Sogna di arrivare in India a cavallo di un elefante. In realtà la spedizione si rivela molto complicata, disastrosa dal punto di vista militare perché gli inglesi gli distruggono subito la flotta ad Abukir, ma fruttuosissima dal punto di vista culturale e scientifico perché, caso unico nella storia, questo generale parte con 167 scienziati che disegnano e mappano l’antica civiltà egizia e – da lì in avanti – l’Europa si innamora dell’Egitto».
Al riapparire in Francia, viene accolto come se avesse vinto. E di lì a poco si incorona imperatore.
«Quando torna in Patria capisce che il momento politico è diventato maturo. Quindi, rovescia il direttorio anche in fasi drammatiche perché non tutti sono d’accordo. Lo aiuta molto il fratello Luciano, un autentico talento politico, a costruire questo consolato a tre che presto diventa tutto suo, quando si fa nominare primo console e console a vita. La scalata politica è accompagnata da una grandiosa opera di riorganizzazione dello Stato. Si occupa di tutto con competenza ed efficacia. Crea una macchina organizzativa che lo accompagnerà nella sua breve e fulminante ascesa».
Il consenso è totale?
«Sì. È elevato anche perché lo sa gestire al meglio: è un mago della comunicazione. Lo alimenta continuamente con le vittorie militari, quelle che gli consentono di avere le risorse per realizzare questa grandiosa opera che investe tutto, le opere pubbliche, l’istruzione, le comunicazioni. Un programma enorme e completo, che esige un continuo sforzo bellico che alla fine si rivelerà molto logorante e costoso».
Voleva essere ricordato per il Codice civile. Perché?
«Il Codice civile è rimasto la base dei codici europei. Lui ci teneva molto perché era nemico della spaventosa burocrazia imbrattacarte. Ce l’aveva con gli avvocati che, con i loro cavilli, mandavano avanti le cause per anni. Voleva un Codice scritto bene. Applicabile senza tante discussioni. Ha riformato anche quello commerciale e la procedura penale. Si preoccupa di mettere a regime un sistema funzionante da cui sarebbe necessariamente dipeso anche lo sviluppo economico della Francia».
Il 1805 è un anno cruciale. La Francia perde in ottobre la flotta a Trafalgar. Un mese più tardi, la vittoria di Austerlitz disfa la Grande coalizione. Com’è l’Europa a quel punto?
«Napoleone si batte contro tutti. L’Inghilterra è la regista delle operazioni belliche contro di lui, finanzia le altre nazioni, la Russia e l’Austria. La Prussia rimane in una posizione indecisa e indefinita; sceglie le alleanze a seconda dei momenti. Poi c’è una miriade di staterelli della Confederazione del Reno. È uno sforzo colossale che diventa presto insostenibile. I nemici imparano presto le strategie belliche, ma anche a rafforzare i propri arsenali, l’organizzazione e le tecnologie. Le battaglie diventano più sanguinose e incerte. Napoleone non può contare sulle prede belliche che gli servivano per gli ambiziosi progetti. La situazione si fa più pesante, ma lui rifiuta la pace, rifiuta un accordo di mediazione».
Commette l’errore di attaccare la Russia. Nel 1813 verrà steso a Lipsia. Perché non capisce che deve fermarsi?
«Invade la Russia con 700 mila uomini. È un esercito immane. Il maggiore che si sia visto nella storia. Non tiene però conto che si deve muovere su un territorio immenso e dunque ci sono problemi di comunicazione. Metà dell’esercito è formato da componenti di venti nazioni, parlarsi e capirsi è complicato. I russi si ritirano, non accettano la battaglia campale decisiva su cui lui contava. Mosca brucia. I francesi sono costretti a una ritirata disastrosa in cui perde 500 mila uomini».
Nell’ottobre 1813 finisce la festa. Napoleone viene esiliato all’Elba. Rientrerà e dopo cento giorni sarà sconfitto. Come mai la Francia accetta di seguirlo ancora una volta?
«In buona sostanza succede perché i Borboni hanno deluso. Non c’erano grandi aspettative, ma si rivelano insufficienti e incapaci. Si creano immediatamente questa corrente nostalgica e uno dei capolavori di Napoleone: sbarca a Frejus, su quella che oggi chiamiamo Costa Azzurra, e arriva a Parigi senza sparare un colpo; in pochi mesi riorganizza di nuovo un esercito poderoso, ma in lui, nei suoi generali e nell’intera società francese, lo stupore e l’entusiasmo sono bilanciati da una grande stanchezza».
E poi piove a Waterloo, ci sono gli errori e l’abilità di Wellington. Napoleone finisce a Sant’Elena. Cosa resta dell’imperatore?
«È una storia straordinaria. Il vinto riesce a garantirsi la vittoria ultima e finale, a dominare il cuore dei posteri, con un libro scritto attraverso la penna di un bravo pubblicista – il conte Emmanuel de Las Cases. Scrive un memoriale in cui non solo parla del pessimo trattamento che gli riservano gli inglesi – e dunque cerca di stimolare la pietà e la solidarietà dell’opinione pubblica -, racconta la propria epopea e si presenta come un grande sovrano liberale che vuole la libertà dei popoli e sogna addirittura un’Europa unita con le stesse leggi e la stessa moneta. Manda un invito ai posteri e soprattutto ai giovani: anche voi, bravi borghesi, se avrete forza e capacità, volontà, determinazione e coraggio, potrete farvi imperatori da soli. Questo sarà il messaggio che filtra e che sarà recepito dalla borghesia e che gli consente di regnare tutt’ora nel cuore di chi è venuto dopo di lui».
Il 5 maggio 1821 muore. Chi visita i campi di battaglia di Napoleone, a partire da Waterloo in Belgio, vede celebrare quasi solo lo sconfitto. Come mai, alla fine, nell’immaginario collettivo vince l’imperatore?
«Perché ha usato la meritocrazia come motore della sua straordinaria azione. Ha abbattuto le barriere sociali, ha valorizzato il mito dell’intraprendenza e del coraggio, ha sostituito il diritto ereditario che premia gli incapaci, ha affermato l’importanza dello studio, del merito, della conoscenza. In una parola ha affermato la professionalità. Questo è un messaggio che può e deve toccare anche noi. Si diventa eroi unici come lui solo attraverso il ricorso a grandi capacità coltivate strenuamente».