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 2023  novembre 23 Giovedì calendario

Intervista a Maurizio Sarri

 Durante la sosta, Maurizio Sarri ha staccato soltanto per festeggiare il novantacinquesimo compleanno di suo padre Amerigo. «Il tempo l’ho impiegato a studiare i prossimi 21 avversari», quindi si è guardato e riguardato partite che avrebbero stroncato un toro ma non lui, che dice che più si gioca e più si rovina il calcio, ma per il quale il calcio è il respiro delle giornate.
Sarri, la denuncia dei calendari affollati è il suo cavallo di battaglia: è davvero quello il cuore del problema?
«Ne parlo da cinque anni, eppure mi accusano di cercare alibi e basta. In questi giorni in Spagna sta venendo giù il mondo per l’infortunio di Gavi, lo chiamano Uefa Virus: spero che qualcuno abbia l’onestà intellettuale per riconoscermi che certe cose io le dico da una vita».
Non s’è accorto che tanto il progresso non si può fermare?
«L’unico calcio sostenibile è quello inglese, il più tradizionalista, dove il sabato pomeriggio non c’è nessuna partita in tv perché la gente affolla gli stadi delle categorie minori. La finale di FA Cup è il match più visto al mondo dopo quella di Champions, eppure da cent’anni ha sempre gli stessi riti e si gioca a Wembley, mica in Arabia. Vorrà dire qualcosa?».
Cosa?
«Lì c’è il tentativo di non fare cadere il movimento nella globalità. Così loro sono tutti ricchi, mentre i nostri ricchi sono i poveri d’Europa. Il calcio è uno sport emozionale: se gli togli l’emozione, a livello televisivo non è certo il migliore spettacolo del mondo. L’emozione la tiene viva il bambino che va allo stadio, ma non c’è futuro se si mira al pubblico degli highlights».
Però i diritti tv, e il proliferare delle partite, vi garantiscono stipendi da nababbi: non le garba nemmeno questo?
«Garantiscono 50-70 stipendi d’élite, tra cui il mio, non ricchezza al movimento: vent’anni fa un calciatore di Serie C era un benestante, ora fatica ad arrivare alla fine del mese. Si cerca di aumentare il fatturato diminuendo la qualità del prodotto, ma quale azienda ragiona così?».
Sarri è un rompiscatole perché si lamenta sempre: non è stufo di sentirselo dire?
«Sostanzialmente me ne frego, ho una testa pensante e critico, anche se questo calcio fa il mio bene. In privato i colleghi, tutti, mi dicono bravo, fai bene, bisogna denunciare.
Ma poi non ce n’è uno che mi venga dietro».
Perché i sindacati di calciatori e allenatori non si fanno sentire?
«Non conta più niente la Cgil, cosa volete che contino Aia e Aic».
Perché non va bene giocare ogni tre giorni?
«Perché se non ti alleni subentrano il decadimento tecnico e fisico e la stanchezza mentale, quindi lo spettacolo peggiora. Per altro, anche chi non ha giocato non è avulso dalla stanchezza, perché si trova a vivere in un ambiente stanco. Ormai si ci allena solo al video».
Quante partite un calciatore dovrebbe fare, in un anno?
«Al massimo 50. Si potrebbe almeno cominciare dalle piccole cose, tipo rinunciare alle tournée estive eriportare la Coppa Italia ad agosto anche per le grandi, facendole giocare sui campi delle squadre di Serie C, che così farebbero incassi per campare tutto l’anno. Ma di sicuro ci direbbero che c’è un problema di ordine pubblico per cui la Juve non può andare a Campobasso. La Coppa Italia è un evento clandestino cucito su misura per l’audience televisiva degli ultimi turni. Ma il calcio non è questo, è il Bayern che perde con una squadra di C».
Lei è così tradizionalista, eppure si è imposto con la modernità delle idee: non è una contraddizione?
«Un conto sono le tradizioni, un altro l’interpretazione del gioco. Io cerco di trasmettere ai miei giocatori anche l’aspetto culturale, perché conoscere il passato del club, dell’ambiente e dei vecchi giocatori ti arricchisce.
Siamo la somma di una storia individuale e collettiva».
Chi le ha messo in testa certi tarli?
«Sono un autodidatta che ha imparato a furia di schiaffi sul viso e di lezioni prese. Il sarrismo fatico a comprendere cosa sia, ma tanto è un mondo di slogan, di etichette e luoghi comuni e allora teniamoci il sarrismo».
Ma esiste o no, ‘sto sarrismo?
«Se ci riferiamo agli anni di Napoli, io non posso e non devo fare quel calcio lì per forza, anche se la gente pretende da me sempre la stessa maniera di giocare. Avere dei palleggiatori non è come avere dei contropiedisti, mi devo adattare, la Lazio non potrà mai essere come il Napoli. Prendiamo Immobile: deveattaccare la profondità e non giocare contro le sue qualità migliori. L’altro giorno mi ha chiesto: mister, cosa devo fare per tornare come prima?
Gli ho risposto: fai quello che hai sempre fatto, non venire incontro alla palla, continua a scavare la difesa avversaria, a giocarle addosso».
Conferma che allenerà la Lazio e poi basta?
«Mi piacerebbe che fosse così».
Quindi lascia nel 2025?
«Non metto limiti temporali, perciò non dipende solo da me».
Finirà per andare anche lei in Arabia?
«Si può fumare, in Arabia?».
Sì sì.
«Allora vedremo. Comunque non è una cosa programmabile oggi. Se penso al futuro, mi piacerebbe essere l’allenatore della Lazio al Flaminio. È un progetto in cui Lotito crede, anche se ovviamente vuole delle garanzie: non è che si possa fermare tutto se scavando salta fuori un’anfora».
È così diverso allenare tra i dilettanti o in Champions?
«Non cambia niente. Ci sono le primedonne anche in Serie D».
Perché l’hanno esonerata un sacco di volte?
«Primo, perché ho fatto un calcio che era troppo avanti. Secondo, perché non sono di facile gestione, anche se in parte mi sono smussato. Ma io sono questo: il giorno in cui diventassi facile da gestire, sarà meglio smettere».
Perché ha detto che quando ha vinto non si è divertito, mentre alla
Lazio ha riscoperto il piacere di allenare?
«Alla Juve tutto era dovuto e dovevamo solo vincere la Champions, ma era un messaggio inquinato. Ho vinto lo scudetto con un gruppo a fine ciclo e una società che ha preso me perché aveva la voglia ma non la convinzione di cambiare stile. Nel Chelsea ho fatto fatica io a calarmi in un club atipico, senza ds, dove nessun allenatore riusciva a resistere due anni. Però poi negli ultimi mesi mi sono divertito e ho sbagliato a voler venire via, non tanto dal Chelsea, che mi avrebbe anche tenuto, ma dalla Premier, un contesto di bellezza unica. Tornare in Italia è stato un errore».
Insomma, alla Lazio si diverte o no?
«Qui ti fanno sentire neanche parte integrante, ma addirittura fondamentale: così è la figura dell’allenatore, per Lotito».
Eppure avete passato un’estate turbolenta.
«Io avevo delle idee, poteva esser l’anno in cui alzare l’asticella, ma le mie sono proposte tecniche e basta: la realizzazione economica spetta alla società».
Fatto sta che siete indietro di molti passi.
«L’anno scorso le coppe hanno tolto punti alle nostre concorrenti, consentendoci di realizzare un miracolo che rimane ma che non può cambiare le aspettative su di noi. Al ritorno in Champions la squadra ha reagito bene, 7 punti in 4 partite sono un risultato di grande livello, ma non ci aspettavamo certe difficoltà nella normalità del campionato».
Ha cambiato qualcosa nella gestione psicologica del gruppo?
«Ho a che fare con professionisti adulti e non voglio fare il fratello maggiore, lo zio, il babbo. Ho il pregio e il difetto di parlare schietto: questo crea dissapori nel breve, molto meno quando imparano a conoscermi».
Lei non mette praticamente mai piede a Roma: riesce a rimanere immune dal virus del derby?
«Il derby mi trita. Da fuori ti sembra un’esagerazione, poi quando lo vivi è micidiale: tutto quello che respiri diventa derby, c’è il magazziniere in clima derby, ci sono i cuochi in clima derby. Il derby ti rovina la vita, ma è bellissimo».
Ha trovato un erede?
«Roberto».
De Zerbi?
«Sì, qualche volta ci sentiamo, anche se non ha mai giocato con me. Del resto io mi sono innamorato del calcio vedendo le squadre di Sacchi, per il senso di ordine che mi davano e che prima non avevo mai visto. Arrigo l’ho conosciuto molto dopo, ma è stato lui a ispirarmi».
E c’è invece un suo ex giocatore che potrebbe perpetuare il sarrismo?
«Maccarone, che fino a qualche settimana fa allenava il Piacenza in Serie D: spero sia all’inizio di una grande carriera. È un giocatore che ha avuto molto meno di quanto avrebbe meritato, ma si è affezionato al tipo di calcio nostro e ora sta provando a riproporlo».
E lei, alla fine, è felice di quello che ha combinato?
«Sono parecchio contento perché vengo da parecchio lontano. Il Napoli di Sarri sarà ricordato per trent’anni».