Corriere della Sera, 23 novembre 2023
Novant’anni con Einaudi
Che cosa direbbe Giulio Einaudi di questa Einaudi che non vede più da quasi 25 anni, essendo morto nel 1999. L’Einaudi che già da tempo non era più la sua, ma che seguì con accanimento fino alla fine, anche dopo la crisi del 1983 e persino con l’acquisizione berlusconiana. Oggi, a novant’anni dalla fondazione (15 novembre 1933), ci si ritroverebbe? Ci sono ancora le collane storiche su cui si sono costruiti gli equilibri del catalogo: Saggi, Millenni, Nuova Universale, detta Nue, PBE, Struzzi, Supercoralli, Bianca di Poesia… C’è la collana di Storia, c’è ancora persino la collana di classici fondata nel 1939 da Santorre Debenedetti. Non ci sono più i famosi Paperback bianchi con riquadro blu e il Nuovo Politecnico «militante» ideato da Giulio Bollati. Ma altre collane si sono aggiunte, Passaggi, Letture, Arcipelago, Vele, Frontiere. Ci sono ancora gli accenti «sbagliati» (acuti sulle A, sulle O e sulle U) imposti da Cesare Pavese, primo direttore editoriale. E continuano ad essere pubblicati tanti autori storici: lo stesso Pavese, Natalia Ginzburg, Primo Levi, Beppe Fenoglio, Paolo Volponi, Elsa Morante, fino a Daniele Del Giudice. Non c’è più Calvino, che passò da Garzanti durante la crisi al punto da farsi dare del «traditore» dal Divo Giulio. Corrado Stajano e Carlo Ginzburg lasciarono nel 1994, quando lo Struzzo finì alla Mondadori (e pare che Giulio li salutò con un moto d’invidia).
Fatto sta che, dopo quasi 30 anni di proprietà mondadoriana (con qualche rinuncia «politica» alla pubblicazione: Saramago, Raboni, Cordelli per dirne tre), Einaudi è ancora una delle case editrici più ambite dagli autori, forse più dell’Adelphi, che agli scrittori italiani viventi non ha mai mostrato grande generosità. L’Einaudi no, ha allargato, ha accolto, persino troppo, dice qualcuno. Il «troppo» sta tutto, o quasi, dalla parte di Stile libero, la sigla nata all’interno dei Tascabili nel 1996 e poi diventata autonoma, anima romana e giovanilista, noir, pop. Quasi una casa editrice a sé, di immenso successo, capace di allargare e di svecchiare anche a costo di dissensi e rotture interne. Una di queste era accaduta appena prima, nel 1991, quando nei Tascabili Oreste Del Buono propose Le formiche, la raccolta di battute scelte da Gino & Michele, considerata indegna di una casa editrice di cultura.
C’è chi dice che l’Einaudi è stata la più importante casa editrice della sinistra italiana. Non è vero. È stata una delle più importanti, prestigiose, geniali case editrici europee. Basti dire che ha pubblicato sì Marx e Gramsci, Bobbio e Calvino, ma anche grandi borghesi tutt’altro che comunisti come Montale, Gadda, Borges, e persino il «nazista» Céline. Ha pubblicato una storia del fascismo «revisionista» come quella di Renzo De Felice. Per non dire dei dissidenti Solženicyn e Pasternak. A dimostrazione che la cosiddetta egemonia culturale è (stata) non della sinistra ma di chi è (stato) più lungimirante di altri.
Ora, Giulio sarebbe contento? Anche se non ci sono più i famosi mercoledì dei consulenti? Anche se la narrativa di genere impazza in Einaudi come impazza ovunque? Anche se la saggistica langue come langue ovunque? Sarebbe probabilmente contento. Anche se il mondo è cambiato e la sua ex casa editrice è diventata una gallina dalle uova d’oro come lui, nella sua follia gestionale, non avrebbe mai immaginato né forse auspicato. Sì, perché da due decenni, più o meno con la nascita dei Tascabili, con una svolta impressionante nella letteratura straniera (da Roth a Marías, da Ishiguro a McEwan, da Vargas Llosa a Alice Munro, da Pamuk a Coetzee) e della politica «interna» (i numerosi autori da Strega), l’Einaudi ha compiuto il mezzo miracolo di essere un’altra cosa rimanendo sé stessa: adattando le mutate esigenze di fatturato (incomparabili con quelle precarie del Divo) alle scelte editoriali e viceversa.