Corriere della Sera, 23 novembre 2023
L’insofferenza verso Israele
Ancora una volta gli ebrei sono soli a vedersela con i loro nemici: possono forse ancora contare sugli Stati Uniti ma certo non su di noi, non sull’Europa. Ho detto gli ebrei, non gli israeliani, perché è impossibile avere dubbi. Infatti sotto le sembianze di un’operazione militare l’attacco di Hamas del 7 ottobre è stato qualcosa di ben diverso: le voci, le azioni, l’esultanza di chi lo ha condotto erano quelle inconfondibili dell’odio antiebraico, della sete di sangue ebreo. Erano le voci e le azioni di un pogrom.
Una «giusta» risposta a quell’attacco, una risposta appropriata – e cioè adeguata all’enormità atroce dell’accaduto ma in grado al tempo stesso di non fare vittime civili, di lasciare intatte le strade e le case di Gaza e chi le abitava – questa risposta fino ad oggi nessuno ha saputo dire quale avrebbe dovuto essere. E soprattutto come sarebbe stato mai possibile eseguirla concretamente: nessuno che io sappia. Eppure non si contano coloro che fin dall’inizio, fin dalle prime ore dell’attacco israeliano a Gaza hanno immediatamente cominciato a denunciarne la natura di «crimine di guerra», addirittura di «genocidio».
C erto, con ogni probabilità l’obiettivo israeliano di distruggere Hamas ad ogni costo, anche a quello di provocare migliaia di vittime civili tra la popolazione di Gaza, era ed è un obiettivo irraggiungibile. Ma quale altro obiettivo poteva prefiggersi chi aveva visto un migliaio e più dei propri concittadini inermi, le proprie donne e bambini, sgozzati, stuprati, sventrati, fatti a pezzi? Quale avrebbe dovuto essere la «giusta» reazione di chi aveva visto oltre duecento di essi rapiti come ostaggi? Prevede qualcosa per una circostanza del genere la Carta delle Nazioni Unite o qualcuna delle sue convenzioni?
Sta di fatto che nell’opinione pubblica europea ormai cresce a vista d’occhio se non l’ostilità perlomeno la dissociazione nei confronti dell’operazione militare israeliana. Si tratta di una reazione che dietro motivi di opportunità diciamo così politico-strategica nasconde in realtà un’antipatia più o meno esplicita per Israele; antipatia che sebbene talora sia pronta a fare tutt’uno con l’antisemitismo latente, è però un’altra cosa, ha una diversa origine.
Sì, Israele è profondamente antipatico a molti in questa parte del mondo. Non è facile sentirlo dire apertamente perché dopo la Shoah tutto quanto riguarda l’ebraismo è oggetto in modo più o meno consapevole di una censura fortissima. Ma la verità è che per ciò che esso è, per come è la sua società, per i valori che lo animano, per i modi della sua gente, Israele suscita in molti qui da noi un sentimento di fastidio, di sordo rigetto. Israele non ci piace. Ma non è la sua diversità in quanto tale che ci dà fastidio (nessuno si fa infastidire dalla diversità, poniamo, dell’Islanda o del Portogallo). Il fatto decisivo è che in questo caso la diversità suscita in noi un sentimento oscuro fatto di nostalgia per una perdita e insieme di un senso di inadeguatezza.
Con la sua sola esistenza, infatti, Israele ricorda a noi occidentali quello che non siamo, che non vogliamo o non sappiamo più essere. Per ragioni se si vuole anche in buona parte indipendenti dalla sua volontà, tuttavia lo Stato ebraico è l’esempio di una società divisa al proprio interno anche in modi asprissimi – ad esempio sulla questione cruciale del ruolo della religione – ma che nei momenti critici sa mettere da parte ogni motivo di frattura e mostrarsi straordinariamente unita e coesa. Dove l’individualismo e i suoi diritti non sono in contraddizione con il sentimento comunitario. È una società che crede in se stessa, nel senso profondo della propria esistenza, della propria storica ragion d’essere, e capace come nessun’altra di instillare questo sentimento nei propri cittadini. Le migliaia di riservisti impegnati nei loro affari ai quattro angoli della terra i quali però nell’ora del pericolo, senza che nessuno li richiami, sentono spontaneamente il dovere di ritornare in 24 ore nella propria patria per difenderla è una circostanza che parla da sola. E che da sola basta a indicare la nostra siderale diversità: giudichino i lettori a vantaggio di chi.
Che lo vogliamo o no, che lo sappiamo o no, per i popoli di cultura cristiana quali noi ancora siamo Israele non è, né può essere un luogo qualsiasi. In forza dell’ovvio spessore simbolico che l’ebraismo ha tuttora per noi esso si pone sempre anche come un termine di confronto e di giudizio. In tutti i sensi: nella insistenza, ad esempio, con cui in tanti guardiamo ai suoi errori, quasi compiacendocene, ma ancora di più nella stupita impressione che suscita in noi il senso della comunità, il senso civico, la disponibilità al sacrificio personale che connotano la sua vita e che si esprimono in modo peculiare nel suo rapporto con la guerra.
La guerra vuol dire moltissime cose, implica un’infinità di aspetti individuali e collettivi che riguardano ambiti dai quali le nostre società segnano da tempo una lontananza abissale. Morire in guerra per noi è diventato ormai inconcepibile. E tuttavia avvertiamo che quella circostanza così drammatica, la guerra, mette in gioco tratti ancestrali dell’identità umana cui è difficile negare un valore – elementare quanto si vuole ma pur sempre cruciale: il coraggio, il sentimento di solidarietà con chi sta al nostro fianco, l’abnegazione.
Esiste un luogo vicino e insieme lontanissimo nel quale tutto quanto ho detto finora, la coesione sociale, le virtù civiche, certi valori antichi, hanno ancora corso. Dove ancora è costretto ad esistere un passato che un tempo era anche nostro e la cancellazione del quale siamo abituati a considerare ineluttabile e per molti aspetti perfino un progresso. Israele è quel luogo che con la sua esistenza getta un dubbio inquietante sulla necessità e sul significato di tale progresso. Che cosa si vuole di più per giustificare l’infastidita insofferenza pronta a divenire avversione che proviamo nei suoi confronti?