Avvenire, 23 novembre 2023
Se questa società nevrotica rileggesse i Promessi Sposi
Si avvia a concludersi il 150° anniversario della morte di Alessandro Manzoni, l’autore del più famoso di tutti i matrimoni. In fondo, I Promessi Sposi nascono sul presupposto della violenza contro una donna. Per portare a compimento la prepotenza di impedire le nozze, si sceglie di rapire Lucia. È lei la parte debole, è su di lei che si concentra il disegno del male degli uomini del suo tempo. Renzo, comunque vittima, se la svigna e comincia a girare. Lui è un uomo, può scappare. Lei no. Lucia è, agli occhi di certi uomini, una donna fragile, indifesa, impaurita e, dunque, facile preda. Quando nasce e si sviluppa il romanzo, è tempo di patriarcato. Che era, e tale è rimasto per molto tempo, una forma di trasmissione del sapere, del sentire, del vivere e dell’educare. Eppure Manzoni riempie il suo capolavoro di uomini diversi. Il patriarcato non è una giustificazione, per la conversione possibile di Fra Cristoforo e per la grandezza d’animo del cardinal Borromeo o del sarto che accoglie Lucia, appena fuggita dal castello dell’Innominato. C’è una conversione, la più famosa, che può ancora indicare una strada. Lucia, agli occhi del suo autore, rimane per sempre nella cultura italiana e del pensiero cristiano come il personaggio più forte, quello capace di minare le fondamenta di tanta violenza e innescare un cammino di redenzione. C’è un passaggio, nel famoso racconto della conversione dell’Innominato, in cui la sola presenza di Lucia, vittima prescelta del male, suscita nell’uomo che le si contrappone un cambiamento radicale. Il suo corpo ferito e oltraggiato parla più delle parole. L’Innominato «abbassò gli occhi, stette ancora un momento immobile e muto; indi rispondendo a ciò che la poverina non aveva detto – è vero -, esclamò: “Perdonatemi!”». Rispondendo a ciò che non aveva detto. Quest’uomo che aveva impostato sulla violenza tutta la vita, riesce ora a comprendere anche il non detto. Una frase che mostra la via per accedere ad un profondo rispetto dell’altro: avvicinare e comprendere, cogliere, dell’animo, il detto ma anche il non detto. A questo dobbiamo ambire, a questo vertice di umanità dobbiamo far giungere l’uomo contemporaneo.
L’Innominato non è un convertito perché impara
ad andare a Messa. Capisce cosa si muove nel cuore di una persona, la guarda con occhi nuovi e la scopre in tutta la sua dignità. L’esatto contrario della cieca violenza che elimina ciò che non sa capire, che non vuole comprendere, che non parla e non ascolta, che non sa entrare in dialogo.
L’“alessitimia” è l’incapacità muta di dare parole ai propri sentimenti. La nostra società nevrotica, accecata dalla furia del movimento, del caos e del disordine, non sa accompagnare gli uomini a diventare capaci di fermarsi e cercare di dare parole al “guazzabuglio del cuore”. Di amore si vive, non ne possiamo fare a meno. Ma di amore si muore e si soccombe, anche. L’amore si trasforma nel suo contrario. «L’ho uccisa perché l’amavo» – fu l’assurda giustificazione che un uomo portò dopo il suo omicidio.
Laura Pigozzi, nel suo volume Amori tossici, mette in guardia dall’«invocare la natura come guida dell’umano». È necessaria una profonda educazione ai sentimenti, alle emozioni e alla capacità di gestirle, assecondarle o frenarle. Il maschio violento è un uomo per cui il mondo e la vita coincidono con la propria esuberante e immediata natura. Ciò che ci salverà, allora è la cultura di un “bordo” e di confini. La base solida di una rinnovata “scuola” sentimentale dovrà essere una sorta di “teologia del confine”. Come scrive Pigozzi, «l’amore è una questione di confini, di bordi che dovrebbero restare porosi, mobili, morbidi, e costituire il passaggio di ciò che nutre, come fa la membrana di una cellula». Bisogna imparare ad accettare e far emergere il valore di un “bordo”, nelle relazioni umane. Di un limite. Non è una barriera, il bordo, è un confine che chiama all’impegno e alla responsabilità di conoscerlo, prima di attraversarlo, di rispettarlo senza scavalcarlo e di amarlo senza calpestarlo.