il Giornale, 22 novembre 2023
Intervista a Cochi
Cochi, all’anagrafe Aurelio Ponzoni, nasce l’11 marzo 1941, in una Milano che non c’è più. «Eh sì, sono un figlio della guerra. La mia famiglia si era spostata in un paese vicino a Varese, Gemonio, e ho trascorso lì la prima infanzia». A Gemonio, come racconta nella sua autobiografia, La versione di Cochi (a cura di paolo Crespi e da poco pubblicata da La nave di Teseo), ci sono anche degli amici dei suoi genitori, i Pozzetto. Il figlio si chiama Renato: è così che comincia un’amicizia che, su e giù dai palcoscenici, ha segnato la storia dello spettacolo italiano. «Un’avventura nata naturalmente»... Cochi, da ragazzo era un po’ scapestrato? «Diciamo che ero molto vivace e curioso. Poi ecco, le mie sorelle mi portavano a Messa, e io a quattro anni fuori dalla chiesa facevo l’imitazione del prete: avevo già questa smania di rappresentare qualcosa... I germi del mestiere». Quando ha cominciato? «A 15 anni appartenevo alla Compagnia amatoriale del Teatro Angelico di via della Moscova: la domenica, con gli amici, facevo degli spettacoli negli oratori». Non si è più fermato? «Professionalmente ho cominciato a 22 anni ma, prima, per due anni ho lavorato a Linate, al check-in di tre compagnie: sapevo inglese, francese e tedesco...». Che cos’era «L’Oca d’oro»? «Il nostro punto di ritrovo, a Brera. C’erano Manzoni, Fontana, Buzzati, Branciardi, Eco, Fo, Franca Rame... Facevamo ascoltare le nostre canzoni a questi personaggi per divertirci, senza quasi sapere chi fossero». Ma quanti anni avevate? «Eravamo giovanissimi, intorno ai 15-16 anni: io ero a ragioneria, Renato al geometra. Trascorrevamo le nostre serate lì. È così che abbiamo incontrato i Mantegazza, Tinin e Velia: loro avevano una galleria, la Muffola, dove tenevano dei vernissage notturni, e ci invitarono a esibirci da loro. Un cabaret in pectore». E poi? «Poi, nel ’64, con Tinin e Velia abbiamo deciso di fare davvero un cabaret. Abbiamo affittato il sottoscala di un bar in via Santa Sofia. Il Cab 64 era una cooperativa con vari artisti, e ogni sera dividevamo il risultato. Che poi c’erano 50 persone al massimo... Buzzati, per aiutarci, ordinava Dom Pérignon. E poi è arrivato Jannacci, e nel ’65 è iniziata l’avventura del Derby, con Bruno Lauzi, Lino Toffolo e Felice Andreasi: per dieci anni siamo stati sempre insieme». Il duo Cochi e Renato era già quello dei grandi successi? «Sì, lì nasce tutto. Avevamo già un nostro repertorio, e lo abbiamo arricchito con l’aiuto musicale di Jannacci: noi scrivevamo i testi, Enzo la musica». C’era un rapporto speciale con Jannacci? «Eravamo indivisibili, sempre insieme. Enzo era già famoso, ma rifiutava delle serate, ben pagate, per stare con noi. Era un maestro, e anche il nostro produttore discografico: è stato un lavoro fatto in amicizia totale, un’esperienza meravigliosa». I vostri numeri come nascevano? «In modo occasionale. Partivamo da una frase e cominciavamo a sproloquiare, fino a mettere le idee insieme: era tutto originale perché frutto di un linguaggio solo nostro. Non solo l’esito, ma anche la partenza era surreale... Prenda Tema». Il mitico «Bravo 7+»? «Da uno sberleffo è uscito uno sketch famoso, fatto con Villaggio in tv, in cui io impersonavo l’alunno ricco e Renato il maestro povero: io prendevo sempre 7+, lui qualche banconota... Fino a che, dopo 13 puntate, arrivò una lettera dal Ministero, che ci proibì di proseguire: avevano capito che il maestro era un po’ corrotto». È dagli anni ’60 che tutti ridono alle vostre esibizioni, come La gallina o La vita l’è bela. Come è successo? «Sono un miscuglio di canto e recitazione, alla cui origine c’è la canzone milanese, in dialetto. La prima è stata El portafoeuj: è la storia di uno che prende il tram, gli rubano il portafoglio, e lui racconta quello che c’era dentro... E io, a dispetto: Ma quanto sei scemo, te s’è propri un pirla. È così che è iniziato tutto, a dispetto: la forza è quella lì, di due individui compatibili, con caratteristiche totalmente diverse, ma che si sposano bene». C’entra anche la cassoeula di sua mamma? «Ah, quella era la sua specialità. È stato durante un pranzo con la cassoeula che è nata La vita l’è bela». E i balletti? «All’inizio, in tv, li abbiamo fatti per attirare l’attenzione. Erano appositamente ridicoli. Eravamo spontanei, ma studiavamo tutto nei minimi particolari, per pomeriggi interi... Eravamo attentissimi anche ai suoni delle parole, alla musicalità». E le parole stesse? «Ci divertivamo a inventare frasi e parole, a improvvisare, come con Silvano, o con gli errori, per esempio con Ho soffrito per te, tutta sgrammaticata. Era la nostra natura, fin da bambini». Ci sono eredi? «Nessuno». Chi le piace? «Tanti. Aldo Giovanni e Giacomo, Mago Forest, Raul Cremona, Albanese, Paolo Rossi». È stato Paolo Rossi a dire che uno dei tre grandi misteri della vita è: cosa ha fatto Cochi Ponzoni dal 1979 a oggi? «Abbiamo lavorato insieme su Raitre, nel ’92. Nei vent’anni precedenti avevo fatto teatro di prosa, quindi ero sparito dalla tv, e qualcuno pensava fossi morto... Il teatro di prosa ha un suo pubblico, ma non crea quella popolarità che danno la tv o il cinema; io però mi sono divertito moltissimo a farlo: era il lavoro che sognavo, fin dall’inizio. E poi ho fatto film con Lattuada, Dino Risi, Monicelli, Sordi. Sordi faceva così ridere che, quando mi mostrava come fare certe scene, non riuscivo a smettere». Dove si è divertito di più? «Al Derby, tutti insieme. E poi nel teatro di prosa». Lavorare con tanti grandi artisti fa imparare sempre qualcosa? «Sicuramente sì. Ma si ruba anche dai comprimari». Chi l’ha segnata di più? «Jannacci. Un fratello maggiore. Abbiamo vissuto momenti di una felicità irripetibile». Il numero che più la rappresenta? «La solita predica, a teatro. Facevo una predica contro i poveri e confessavo Renato, che diceva: Ho fatto l’autostrada in taxi, e io lo insultavo. Era così surreale...» Lavorerete ancora insieme? «Avevamo intenzione di fare una rentrée per la riapertura del Lirico, ma vedremo. Siamo un po’ in là con l’età». Qual è il segreto per far ridere? «Guardi, è solo nel fatto che si nasca con quel talento lì, che io e Renato abbiamo avuto la fortuna di avere. Siamo figli della strada: siamo nati con quel guizzo e, anche, con la voglia di esibirci, di rappresentare noi e gli altri, di fare musiche e canzoni e di far divertire la gente. Che ce n’è tanto bisogno».