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 2023  novembre 22 Mercoledì calendario

Intervista a Iwona Tenzing e Norbu Tenzing


«Il professor Tucci era uno strano uomo, uno dei più notevoli che io abbia mai conosciuto. Era molto serio e devoto al suo lavoro. Ma al contrario degli altri alpinisti che ho frequentato, in maggioranza gente quieta e silenziosa, Giuseppe Tucci era estremamente eccitabile e capriccioso: tutto doveva essere come diceva lui, o esplodeva».
Questa descrizione del grande orientalista si trova inTiger of the Snows,l’autobiografia in cui Tenzing Norgay, lo sherpa che per primo scalò l’Everest con Edmund Hillary nel 1953, raccontò non solo l’ascensione della vetta più alta del mondo, ma i suoi viaggi in Tibet con Tucci; i due visitarono a lungo il “regno delle nevi” prima che la Cina lo invadesse nel 1950 e la Rivoluzione Culturale sferrasse alle sue tradizioni un colpo durissimo. A ricordarci questa descrizione e a parlarci del rapporto tra due uomini speciali è Norbu Tenzing Norgay, figlio maggiore di Tenzing, scomparso nel 1986.
Documentarista e vicepresidente dell’American Himalayan Foundation, Norbu ci racconta di suo padre a settantacinque anni dal primo, mitico viaggio di Tucci e Tenzing in Tibet; in questi giorni è a Parigi, insieme alla moglie Iwona, in occasione di Fab Paris, la biennale di antiquariato e collezionismo della capitale francese che si svolge al Grand Palais Ephémère fino al 26 novembre. La galleria fondata da Iwona, Tenzing Asian Art, con sedi a San Francisco e Hong Kong, è infatti una delle più importanti al mondo per l’arte himalayana. Alla coppia chiediamo di ricostruire per noi il filo che lega il Tibet all’Italia (la collezione straordinaria di Tucci è oggi ospitata al Museo delle Civiltà di Roma) e di illustrare le peculiarità di un’arte che è il viatico per cogliere lo spirito dei popoli della montagna.
Iniziamo dal personale: è stato l’amore per l’Himalaya a farvi incontrare?
Iwona Tenzing : «Proprio così.
Negli anni ’80 lavoravo in una galleria famosa a San Francisco, laXanadu Gallery: la sede si trovava nell’unico edificio della città progettato da Frank Lloyd Wright.
Fu lì che misi in piedi la mia prima mostra dedicata all’Himalaya: cercavo organizzazioni attive laggiù per allargare l’interesse sul mio lavoro e contattai l’American Himalayan Foundation. Norbu passò in galleria; fu un colpo di fulmine. Io ho approfondito l’ interesse per la regione e lui mi ha supportato».
L’arte himalayana, focus della vostra galleria, rimase quasi ignota all’Occidente fino al Novecento. La storia di come fu studiata incrocia le vicende della famiglia di Norbu e la storia culturale dell’Italia, poiché fu suo padre Tenzing a viaggiare in Tibet con Giuseppe Tucci
Norbu Tenzing : «Sono cresciuto circondato da celebri uomini di montagna; Tucci morì nel 1984 e io non lo conobbi personalmente, mail modo in cui papà ne parlava era speciale: avevano trascorso tre anni insieme, dal 1948 al 1950. Nel 1948 Tucci cercava qualcuno con cui andare in Tibet: ciò che lo spinse a ingaggiare mio padre, oltre alle sue doti di capo carovana, fu il fatto cheera curioso, intraprendente e perseverante. Fin da ragazzo aveva il sogno di scalare il Chomolungma, l’Everest. Per lui era soprattutto un pellegrinaggio, fin dalla spedizione del 1935 con Eric Shipton; ne fece altre sei prima di raggiungere lavetta nella settima, quella con Hillary. Tra l’una e l’altra viaggiò con Tucci, mettendo alla prova la sua volontà di imparare. Nel 2015 io e Iwona visitammo la collezione Tucci all’epoca al Museo d’Arte Orientale di Roma. Vidi foto di loro due che non conoscevo. Fu emozionante».
I.T :«La conoscenza dell’arte himalayana è recente rispetto a quella delle altre arti orientali, e deve moltissimo a Tucci. Ci furono altri esploratori in quella zona prima di lui, ma Tucci era un genio delle lingue, imparava rapidamente i dialetti locali ed era interessato all’arte; conoscendo la lingua, poteva mettere in relazione i manufatti con i testi sacri, econtestualizzarli. La maggior parte dei monumenti che fotografò e documentò in Tibet non ci sono più: durante la Rivoluzione Culturale più di seimila monasteri furono rasi al suolo. La distruzione fu enorme, per questo il suo lavoro resta fondamentale».
A causa dell’invasione cinese molti tibetani lasciarono il Paese; è così che tanti oggetti sono arrivati in Occidente?
I.T:«Molti tibetani scapparono portando via ciò che potevano: dipinti su rotolo di cotone o seta, dettithangka e piccole sculture, ed è così che questi oggetti giunsero sul mercato antiquario; per iniziare una nuova vita li vendevano. I primi collezionisti quando videro ithangka non sapevano che cosa fossero».
La regione è talmente remota che non ci fu in passato una circolazione verso l’Europa o l’America simile a quella che ci legava alla Cina, o al Giappone?
I.T:«La regione era impervia e ciò la escluse dagli scambi con l’Occidente, ma non era un mondo chiuso. Nessuno lo sa meglio di noi, perché i manufatti della regione himalayana sono raffinati e ricchi di influenze. Tra l’altro, il clima freddo e secco li ha conservati molto bene, se li paragoniamo con opere coeve dell’arte europea».
Se doveste raccontare ciò che esponete a Parigi, come ne descrivereste le peculiarità?
I.T.:«Siamo specializzati inEarly Himalayan Art,dal V secolo d.C. al XIV secolo: una definizione che copre l’area del Grande Tibet, ossia zone oggi appartenenti al Pakistan, al Kashmir, fino a Kandahar che fusotto l’influenza di Alessandro Magno. Il buddismo si affermò in Tibet a partire dal 700 d.C. circa, con il primo imperatore Songtsen Gampo. Quando si vuole consolidare uno Stato si sceglie una lingua, in questo caso derivata dal sanscrito, e uno stile iconografico: l’imperatore fece arrivare a corte dalla valle di Katmandu gli artistinewar, che a Lhasa costruirono il primo tempio. Influenzarono l’impianto decorativo degli edifici e la scultura. L’altro grande evento fu l’arrivo deipandit, gli eruditi fuggiti dall’India dopo l’invasione musulmana; alcuni dei testi più importanti di Nalanda, l’antica università buddista indiana, sopravvissero proprio in Tibet. A Parigi portiamo dipinti dal XII al XVI secolo, con l’iconografia del Buddha della pace e divinità tantriche, sculture, le copertine in legno usate per proteggere i manoscritti eanche alcuni antichi testi religiosi.
Gli artisti, come per l’arte medioevale occidentale, sono anonimi».
Vi capita osservandoli di cercare di immaginare l’emozione di chi, come Tenzing e Tucci, vide questo tipo di oggetti per la prima volta?
N.T.:«Da tibetano e da buddista, posso dirle che i tibetani guardavano e guardano a questi manufatti non come oggetti d’arte, ma come mezzi di pratica devozionale. Ed è importante che una parte di questo patrimonio si sia conservato, sia nei musei che nell collezioni private».
I.T.:«La grande diversità rispetto all’Occidente è che nell’Himalaya non c’è mai stata la concezione dell’arte per l’arte, ma per il suo valore spirituale e religioso, e questa differenza persiste. Lo stesso Tucci guardava all’arte del Tibet andando in cerca dell’anima del Tibet».
“Il territorio era impervio e ciò lo escluse dagli scambi con l’Occidente, ma non era un mondo chiuso. Il clima freddo e secco ha conservato bene quei manufatti”