La Stampa, 22 novembre 2023
Ciao Maschio
Sono nato e cresciuto in una famiglia contadina dove convivevano quattro generazioni, la camera bassa dominata dal matriarcato, l’alta dalle leggi patriarcali, e questo è successo nel secolo passato, in un mondo che non c’è più da un pezzo. Mi hanno cresciuto le femmine della casa, una bisnonna, una nonna, due zie e mia madre, la mia educazione affettiva viene da loro, dalla cura costante, dalla costante presenza. Non ci sono stati tanti discorsi, forse proprio nessun discorso, imparavo vivendo con loro; ho imparato una certa gentilezza nei loro modi, la paziente tenerezza, l’intimità, quel parlare sottovoce di cose misteriose, la sororità nelle relazioni con le altre donne del paese, una solidarietà sorgiva, la delicatezza con cui trattavano con gli altri esseri, con gli animali che allevavano, con le piante che curavano, quella severa dolcezza nell’indicarmi cosa fare, come fare, cos’era consentito e cosa no nel regime di libertà in cui veniva cresciuto un bambino di campagna che doveva saper badare a sé stesso e non infastidire gli adulti che dovevano lavorare. E lavoravano tutti, le femmine nell’orto, in casa a fare le magliaie e a tenere la casa, mio nonno nei campi, mio padre e i miei zii in città a fare gli operai. Loro li vedevo la sera a cena, ma la loro legge, le semplici ferree leggi patriarcali, quei pochi, semplici e indiscutibili comandamenti mosaici, erano sempre presenti, ed era la matriarca a testimoniarli e a farli rispettare. Erano comandamenti interiorizzati, onestà, obbedienza, dedizione al lavoro e alla dignità, fedeltà; la voce del patriarca non era necessaria e veniva dispensata con grande parsimonia. Direi proprio che non c’era dialogo tra me e mio padre, ricordo bene con quale serietà mia madre annunciava, per fortuna non di frequente, mira un po’ che stesera tu pa’ i te vo’ parlare, non c’era niente di confortante da aspettarsi da quell’annuncio, che per altro arrivava puntuale a ogni pagella.Mio padre era un padre non un amico, e se ho sempre accondisceso all’amorevole autorità femminile, mi sono sempre ribellato alla sua. E questa è una cosa buona, ha fatto di me un uomo libero, o almeno passabilmente libero, e comunque abbastanza libero per poter avere precocemente una vita mia e poter tornare, ormai uomo maturo, a riconsiderare mio padre e volergli bene senza ipocrisie, volergli bene sul serio. Porto ancora con me l’immagine del rispetto che vigeva in casa tra i sessi, stabiliti i ruoli e le regole era dato loro un che di sacrale; sacro era il lavoro che rendeva liberi dalla fame e dalla servitù, ma in qualche modo ancora più sacro il rito della preparazione e della somministrazione del cibo, il lavoro dei maschi rendeva la vita dignitosa, quello delle femmine dava la vita.Ricordo il silenzio liturgico attorno alla tavola domenicale intanto che mia nonna ammanniva la grande fiammenga colma di ravioli fumanti e versava nel piatto di ognuno. Prendete e mangiatene, questo è il mio corpo. E un gesto liturgico era la consegna del frutto del lavoro dei maschi alla matriarca, il potere economico era nelle sue mani, quando i maschi avevano bisogno andavano al cassetto specificando, a pio mille franche per….Non ho mai visto un gesto violento né me ne dicono le mie vecchie zie superstiti, ma la violenza di genere c’era, e tanta, solo che era nelle case dei disperati, dei senza lavoro, dei malati psichiatrici, in particolare degli alcolisti; dicono le mie zie che ce ne fosse più di adesso, ma era zittita, e le donne potevano solo contare sul pronto soccorso delle altre donne, non erano mai sole. Mi dicono anche che ci fosse una sorta di servizio di prevenzione; mi raccontano che quando mio nonno al sabato andava all’osteria e tardava a tornare a casa, la mia bisnonna si metteva il tabarro e sotto il tabarro il bacco, il bastone, e si presentava alla porta dell’osteria, senza dire parola, senza farsi troppo notare, ma questo bastava perché suo genero, nato Armando ma noto come Garibaldi per il suo temperamento e il suo socialismo, se ne tornasse a casa. Se poi lei ritenesse che avesse bevuto più del dovuto, la notte dormiva nella camera della figlia, sempre con il bacco a portata di mano. Sì, i maschi della mia famiglia non hanno mai alzato un dito sulle femmine, ma è leggendaria la bastonatura che una domenica mattina mia nonna, nata Genoveffa ma nota come l’Anita per il suo temperamento, inflisse a una signora che riteneva tentatrice alla fedeltà del Garibaldi.Ho ricevuto una educazione femminista? Ma neanche per sogno. Tanto per capirci, quando morì Palmiro Togliatti, un idolo per tutto il paese, intanto che i maschi piangevano il commento dell’Anita è stato; l’è sta’ le’, a fatto a lu un cafè ber forte e a ga misso drento un cuciaro de stricnina. Le’ era ovviamente Nilde Iotti, l’impura convivente, la rovinafamiglie. E per capirci meglio, mia madre disapprovava il distacco con cui gestivo i rapporti con mia sorella, si aspettava da me che le “stessi dietro” la sorvegliassi, le impedissi frequentazioni non confacenti, eccetera, al tempo che un fratello si sentiva in dovere di mollare due ceffoni alla sorella sorpresa con un ragazzo che non gli piaceva.No, la morale con cui sono cresciuto era piuttosto frutto di ignoranza e arretratezza. Ma era pur sempre una morale. Una morale a cui potersi ribellare in nome di un’altra morale. E così è stato. A diciott’anni ero nel mezzo di una rivoluzione che non è stata solo sociale, culturale e politica, ma totale, morale, e sessuale, persino religiosa. Posso dire che in quel frangente sono stato rieducato. Da chi, da cosa? Ma dalla rivoluzione naturalmente, e sì, dall’amore dentro la rivoluzione. Nella mia lingua materna non esiste la parola amore, mio padre e mia madre non se lo sono mai detti e nemmeno me l’hanno mai detto ti amo, se anche si amavano e mi amavano non avevano parole per dirlo, era roba che si sentiva al cinema. La parola che conoscevano era bene; volersi bene, quello era il sentimento, a te voi ben, i se von ben. Il voler bene è un sentimento prezioso, è un potente stabilizzatore, l’amore è un propulsore, un eversore, un sovvertitore dell’ordine stabilito. E noi questo volevamo, amavamo la rivolta, amavamo la libertà, amavamo la passione, amavamo l’ignoto avvenire, amavamo il sesso, come per gli anarchici luganesi “la nostra idea è solo idea d’amor”. E questa è stata la mia seconda educazione sentimentale.Amando fortemente potevamo fortemente odiare tutto ciò che gli si opponeva. C’era violenza, e non solo violenza nelle parole, i maschi andavano ancora alla guerra come avevano fatto per mille generazioni, lo facevano cantando nuove canzoni e suonando gli antichi tamburi. Ma intanto le sorelle si liberavano dei fratelli, le figlie dai padri, le mogli dai mariti, le compagne dai ciclostili. E i compagni capivano bene e non potevano che essere d’accordo, la parola d’ordine era liberarsi dalla proprietà e dunque anche dal possesso. E però non capivano del tutto bene, perché eravamo pur sempre maschi e i maschi sono molto più antichi del capitalismo. E questa è stata la mia terza educazione sentimentale. Ed è stata ancora una questione d’amore, perché odiavamo gli stessi nemici, perché volevano la stessa cosa, la fine di questo mondo e del suo ordine di potere, e il potere che le femmine rivendicavano era un nuovo ordine d’amore. Di così appassionato amore da potermi sentire amato anche quando la mia compagna nella stanza di là discuteva con le sue compagne dell’atavico fascismo implicito nel mio pene intanto che nella stanza di qua preparavo la pasta al pomodoro per tutte loro. E lo ero davvero.Il fatto è che con tutto quell’amore da militare ci eravamo scordati di imparare a voler bene, così che quando la rivoluzione è stata sconfitta, e duramente, quando ci siamo rintanati in casa, una casa molto diversa da quella in cui eravamo cresciuti, arresi non confessi al nuovo potere vittorioso, corri a casa in tutta fretta c’è un biscione che ti aspetta, ci siamo portati dietro l’unica cosa che c’era rimasta, la forza eversiva dell’amore, e senza rivoluzione era solo impotenza e disordine, perché i vecchi principi erano stati abbattuti e i nuovi anche solo troppo complicati da ricordare. E nel disordine la mia generazione ha cresciuto i suoi figli, li abbiamo molto amati, sforzandoci di volergli anche bene senza sapere come fare, senza un ordine delle cose a cui conformare la loro vita, non ne avevamo più uno per noi. Quanti dei nostri figli invece che essere intenti a crescere nella certezza di farcela, andavano ancora all’asilo intanto che dovevano ingegnarsi a tenere assieme la famiglia in modo di arrivare a sera sani e salvi? Quanti ci sono riusciti? Quanta impotenza e quanto disordine abbiamo lasciato in eredità? Quanta frustrazione? E mentre le femmine potevano contare almeno nel ricordo dell’unica rivoluzione non definitamente sconfitta, quella delle loro madri, cosa abbiamo lasciato di servibile ai maschi perché trovassero la strada della ribellione, se non al sistema almeno ai loro padri? Intanto che il Paese viveva il trionfo della nuova rivoluzione totale, la grande Ruota della Fortuna, uno solo il fortunato ma la fortuna è lì, prima o poi per tutti. Non c’è posto per nessun principio che non sia quello di trovarsi un posto, nessuna sacralità nel lavoro, nel gesto, nel sentimento, quando sali sulla Ruota della Fortuna. Non c’è posto per noi ma solo per me, e io ho solo bisogno che quello dello starring mi faccia entrare. Cosa hanno avuto di buono i nostri figli per consegnarlo ai nostri nipoti se non un biglietto per la sala d’attesa dove stare lì seduti ad aspettare la botta di culo? E tra i nostri figli e nipoti le femmine, cosa è toccato a loro se non la nuova era della pornografia di governo, venite in Italia che c’è pieno di belle ragazze, ricordate? Quella là è inchiavabile, ricordate? Non solo l’esaltazione della donna come oggetto, ma come oggetto di momentaneo uso. Questo per chi si era guadagnato il privilegio dell’irresponsabilità e dell’impunità. Ma le femmine hanno avuto qualcosa dalle madri che hanno potuto conservare per la loro ribellione, ai maschi non è restata che la remissione e l’impotenza.Non credo che sia la forza del sistema patriarcale ad armare la mano dei femminicidi, ma proprio la sua debolezza e il suo estremo e violento tentativo di non dissolversi. Il suo sistema ha regnato per millenni non solo con l’esercizio della forza, ma con l’accettazione della responsabilità che ne derivava. Questa era la legge, il maschio ti è padrone perché ti nutre, ti protegge, ti garantisce, io sono la forza che ti mantiene in vita, tu la debole che ha bisogno di me. Chi tra i violatori, gli assassini, chi anche tra i potenziali tra loro, può prendersi questa responsabilità? E chi mai se la vuole prendere? Chi poi è disposto a credergli? Quale maschio non ha bisogno della femmina anche solo per sopravvive nel vigente sistema? È ancora una storia di disperati, ma non per alcolismo, per impotenza. L’impotenza che fa i conti con la forza sempre cosciente e più vivida delle femmine. Non hanno bisogno di essere difese e nutrite, sanno cavarsela benone da sole. Il racconto del patriarcato è al suo ultimo capitolo. E la mascolinità un carattere recessivo della specie umana. E questa è una condizione che va nel profondo dell’animo maschile, molto più di quanto può essere interiorizzato il sistema.A proposito di profondo, mi chiedo cosa abbia significato davvero per l’animo del maschio, laggiù dove governa l’indicibile e l’impensabile, la pillola anticoncezionale. Una rivoluzione nella rivoluzione, un passo decisivo verso la liberazione, così l’abbiamo accolta femmine e maschi, e così l’abbiamo felicemente vissuta. Ma forse va capito di più cosa è successo. È successo che con la pillola è finito il potere più saldo del maschio, un potere esercitato per milioni di anni, la potestà procreativa, una potestà che non è stata negata a nessun maschio, fosse re o fosse schiavo. Con la pillola, quell’oggetto quasi invisibile e non invasivo, è diventata la femmina a decidere quando e se procreare. Di fatto si sono estinti i proletari, coloro che non possedevano altro che la prole, e sono nate le proletarie. Pensiamo noi maschi di non essercene accorti di questa irrimediabile perdita di potere, ma è proprio così? Non è forse successo qualcosa laggiù in fondo? Possibile che almeno laggiù non ci si senta impotenti, castrati del nostro ancestrale potere, sofferenti della perdita dell’unico vero e assoluto potere sulla specie? Allora lo stupro diventa l’atto più disperato, l’ammissione più plateale. Se è così non è che basterà mandare i maschi in galera, alle manifestazioni o sottoporli a corsi di rieducazione, bisognerà che si trovino una nuova ragion d’essere, e se non ci penseranno sarà la specie a decidere se varrà la pena di tenerseli ancora. E, per citare un vecchio film, ciao maschio. —