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 2023  novembre 22 Mercoledì calendario

La dittatura morbida del Santo Cotechino


Da Troppa Carne di Lorenzo Biagiarelli
Il menu di Natale di casa mia, che io ricordi, non è mai stato oggetto di trattative. C’è l’insalata russa, il salame, i marubini cremonesi che, in deroga, possono essere sostituiti con passatelli casalinghi, e poi il cotechino. Benché quest’ultimo sia straordinariamente buono e non ci sia nessuna norma consuetudinaria che vieti di mangiarlo pure a Ferragosto (cosa che, per giunta, ho fatto spesso), mia nonna lo compra solo per il pranzo di Natale (…). Il cotechino a Natale è più della somma delle parti di un maiale morto, della macinazione delle sue carni assieme alle spezie e del lungo tempo che trascorrerà in pentola avvolto in un panno: il cotechino è un simbolo. Pertanto non so cosa cucinerà mia nonna quest’anno a Natale, dal momento che per la prima volta io, nipote amato e prediletto (scusa Caterina), non mangerò il cotechino. (…) Qualsiasi cosa succederà il prossimo 25 dicembre, quando comunque ci scambieremo regali e baci mentre sullo schermo del televisore scorrerà per la trentaquattresima volta nella mia vita il Canto di Natale di Walt Disney, lo renderà forse un Natale “meno Natale” per una serie di motivi legati a quel pezzo di carne. Significa che quello non è più un pezzo di carne, o meglio non lo è mai stato. Capire allora cos’altro sia quel cotechino significa anche comprendere cos’altro sia la carne, perché è principalmente questa sua “altra” natura a renderla così difficile da eliminare dalla nostra tavola. (…)
È questo il primo motivo che rende la carne irrinunciabile, ed è questo che starò facendo quando a Natale, quest’anno, non mangerò il cotechino: spezzerò una tradizione millenaria del genere umano. Se suona un po’ apocalittico è perché non avete mai suggerito a qualcuno di usare il seitan al posto del guanciale nella carbonara. (…) L’oltranzismo gastronomico non è certo prerogativa della sola carbonara e non è nemmeno un fenomeno esclusivamente italiano, gli ultimi sei anni passati a raccontare il cibo sui social network mi hanno fatto conoscere belligeranti frange di tradizionalisti un po’ ovunque, parlando della paella valenciana come del ceviche peruviano. (…) Il clima da curva che si è creato attorno alla discussione gastronomica ha diverse spiegazioni. La prima è che la tradizione culinaria è uno dei pochi punti di contatto con il nostro passato, perché i nostri avi sono morti, i costumi sono cambiati e “là dove c’era l’erba ora c’è una città”. La seconda è che è pure uno degli ultimi presidi di identità nazionale, anche grazie all’invenzione della cucina italiana come somma delle varie culture cittadine, provinciali e regionali. La terza è che la cucina tradizionale è povera e democratica, una delle poche cose che ancora ricchi e borghesi non sono riusciti a rubare al popolo. Il cocktail che si ottiene mescolando questi tre spiriti è benzina per il patriottismo gastronomico, di cui la carne è quasi sempre la protagonista. (…)
Tra i trecentoventuno prodotti italiani protetti da una qualche denominazione o indicazione geografica, più di un terzo è di origine animale. Difenderli significa difendere la propria identità, e non importa che sia posticcia, ingigantita dagli interessi dell’export nazionale o dell’industria zootecnica o che, banalmente, comporti la macellazione di undici milioni di maiali ogni anno o due estenuanti cicli di mungitura meccanica e quotidiana per quattro milioni e mezzo di mucche e quasi sette tra capre e pecore. (…)
Mia nonna, che non è certo un’ideologa della carne ma solo una donna figlia dei suoi tempi, della fame e poi dell’abbondanza, sicuramente questo Natale mi offrirà più di un’alternativa, perché a casa nostra l’amore per un parente viene prima dell’amore per il cotechino (per quanto l’amore del cotechino sia comunque smisurato). Eppure, il motivo per cui ho sempre mangiato carne è che mi è sempre stata servita, a partire dall’infanzia. (…) E io? Qual è stato il più grande ostacolo sul mio personale percorso di rimozione della carne dalla mia dieta? Probabilmente i soldi. I soldi che ho guadagnato, negli ultimi anni, dalla mia attività di food influencer provenivano per la maggior parte dalla carne. Il consorzio del manzo irlandese, quello del vitello, un prosciuttificio di Parma, il ragù della grande azienda italiana, il tonno in scatola, la catena di fast food. Più del 50% delle mie entrate “pubblicitarie” erano legate alla carne, e lo stesso vale per la maggior parte dei miei colleghi. La verità è che alla fine ciò che ci lega più stretti alla carne è la piccola galassia dei nostri egoismi. Il mio tenore di vita, la leggerezza di non dover setacciare il menu del ristorante ogni venerdì sera, la rapidità con cui una fetta di pollo diventa una cena dignitosa, il costo ridicolo di un Happy Meal. E il gusto. (…) Controbattere ai gusti è impossibile, almeno fino a quando la legge non riconosca che le conseguenze di quei gusti sono lesive della persona o della società, come lo stupro, la pedofilia o la schiavitù. Finché i governi non riconosceranno quanto il consumo di carne sia nocivo per il pianeta, cibarsene rimarrà legale. Finché agli animali non sarà riconosciuto un diritto alla vita almeno comparabile a quello degli umani, cibarsene rimarrà morale. Ed è impossibile dare per scontato che la razionalità, la compassione per gli animali, l’informazione sui cambiamenti climatici e sulla salute possano far presa su tutti, come hanno fatto presa su di me. Per questo, in attesa di cambiamenti rivoluzionari dall’alto, è necessario cominciare a proporre più alternative al mio cotechino di Natale.