La Stampa, 21 novembre 2023
La cartiera dei miracoli
«In famiglia mi prendevano per pazzo». Era un salto nel vuoto: pagare per salvare il proprio posto di lavoro, diventare padroni di se stessi. Poteva finire malissimo: senza occupazione e con i risparmi polverizzati. E invece oggi Mauro Montà non ha dubbi: «Lo rifarei mille volte. Abbiamo dato una speranza alle nostre vite e a quelle di tanti ragazzi di queste vallate».Roccavione è un Comune di 2.500 abitanti a venti minuti d’auto da Cuneo, stretto all’imbocco di due Valli: Vermenagna e Gesso. Nel 1872 i fratelli Pirinoli aprirono una cartiera. Otto anni fa i lavoratori hanno fondato una cooperativa per salvarla dal fallimento dopo tre anni di agonia e una serie di gestioni sballate. Erano 70: ciascuno ha rischiato di tasca propria. Oggi i soci sono 78, i dipendenti 97 e l’azienda ha chiuso il 2022 con un fatturato di 70 milioni e utili per 8. «Lavoravo in amministrazione», racconta il vice presidente Ferdinando Tavella. «Mai visto un bilancio in attivo. Eppure i proprietari di soldi ne investivano. Ma c’erano poco. Per noi invece questo stabilimento è casa».Forse la differenza sta qui. A Roccavione si trasforma la carta-spazzatura in cartoncino patinato per le confezioni dei prodotti che compriamo sugli scaffali dei negozi e in cartone grigio (tipo quello dei rotoli di carta igienica). Produce 90 mila tonnellate l’anno e da quando è di proprietà di chi ci lavora non ha chiuso un solo bilancio in perdita in un settore ormai dominato dalle produzioni a basso costo.Un’intera comunità ha creduto in questa sfida. Daniele Aime se lo ricorda bene quel giorno del 2014: «Ciascuno di noi ha deciso di investire i denari della propria famiglia, o almeno una parte. Pochi anni prima avevo lasciato un altro impiego, non volevo cambiare di nuovo. Ho fatto la scelta giusta». Laura Beltrano ha quarant’anni, vive in paese, ha due figli piccoli. Aveva smesso di lavorare perché la sua azienda era troppo lontana da casa. «Quattro anni fa qui cercavano qualcuno per la portineria: mi sono fatta avanti». Voleva un part-time, oggi gestisce anche ordini e operazioni di carico e scarico ed è diventata socia della cooperativa, una delle ultime. «È un investimento sul futuro, delle nostre vite ma anche di questi territori un po’ sperduti dai quali senza fabbriche come questa la gente sarebbe quasi costretta ad andarsene».Fu il commissario che doveva liquidare la cartiera Pirinoli a capire che la soluzione era dentro il capannone. «Lavoravamo fianco a fianco», ricorda Tavella. «Quand’era chiaro che non c’erano speranze, mi disse: “perché non la prendete voi?”. Aveva ragione. Avevamo scritto il piano industriale, sapevamo come tenerla in piedi».Sono partiti in cinque: Silvano Carletto, che ancora oggi è il presidente, Tavella, uno dei pochi a non vivere in zona (originario di Gioia Tauro, da più di vent’anni fa il pendolare tra Torino e Roccavione) e tre rappresentanti dei lavoratori. Uno era Federico Galliano, assunto nel 1995. Oggi è un caso rarissimo di padrone-sindacalista: socio della fabbrica e rappresentante dei lavoratori al tempo stesso. «Carletto e Tavella erano dirigenti, noi la cinghia di trasmissione con gli altri. Ci siamo guardati in faccia e abbiamo deciso di farlo». Hanno coinvolto i 65 colleghi, fondato la cooperativa. Hanno ristrutturato i cicli di produzione, investito sui macchinari. E poi hanno agito come una famiglia: fatto economie, sopportato rinunce negli anni difficili e respirato in quelli migliori. Non sono mai andati a fondo.Eppure le precedenti gestioni investivano milioni. «È vero: la famiglia Eva, di Torino, ha guidato questa fabbrica per quasi un secolo. E anche il gruppo Pkarton ha speso tanti soldi», dice Tavella. «Però non erano di qui, venivano ogni tanto. La cartiera è un oggetto delicato: un errore può costare anche 100 mila euro al giorno». E se dal 2015 i conti non sono più in rosso la ragione probabilmente sta nelle parole di Mauro Montà: «Qui dentro non c’è l’occhio del padrone. Ce ne sono 142, quelli di noi soci».Così la cartiera ha superato il Covid restando chiusa appena un giorno. Ha arginato lo choc energetico con una scelta drastica: «A settembre dell’anno scorso il prezzo del gas era oltre dieci volte lo standard. Produrre significava perdere 6 milioni in un mese. Ci siamo fermati. Solo quando i clienti hanno avuto chiaro che i rincari erano inevitabili anche per loro, siamo ripartiti». A luglio, per la terza volta dal 2015 i 78 soci hanno ricevuto una parte degli utili: quattro mesi di stipendio in più. Gli altri 7 milioni di utile sono andati a capitalizzare la cooperativa e a coprire parte dell’ultimo investimento: sostituire alcune parti della linea di produzione per abbattere del 15% i consumi. Alla fabbrica serve gas per 4 milioni l’anno. Ma per farla girare ci vogliono anche quantità enormi di energia elettrica e vapore. Qualche anno fa i soci-lavoratori hanno deciso di costruire una centrale di co-generazione che produce energia elettrica e termica. «È costata 7 milioni, in tre anni siamo rientrati della spesa e ora siamo del tutto autosufficienti, anzi, vendiamo l’energia che avanza», spiega Tavella. Nel 2015, appena rilevata l’azienda, avevano eliminato due dei tre macchinari: la prassi sarebbe usare un impianto per il cartoncino e uno per il cartone ma loro ne impiegano uno per entrambe le lavorazioni. «È stata una delle chiavi del successo. Conosciamo la fabbrica, sapevamo che si poteva fare».Il miracolo della cartiera, in fondo, è quello di tutta una comunità: «Io sono nata qui e a Roccavione ci sono due simboli: l’arbu, il castagno, e la fabbrica che qui è sempre stata la cartiera», racconta la sindaca Germana Avena. Tra i soci della cooperativa, nel 2014, c’erano anche lei e il suo vice, «come privati cittadini: era un modo per tutelare i lavoratori e mostrare che le istituzioni ci credevano». Ma anche per dare garanzie a chi doveva finanziare l’operazione: servivano soldi per rilevare i macchinari e avviare la produzione. «Nessuno ci credeva. Mi avevano sconsigliata, mi davano della pazza. Ci sono abituata. È stato un salvataggio di comunità. A cose fatte, siamo usciti dalla cooperativa e sono entrati gli operai. Oggi posso dire che dei miei cinquant’anni in municipio è la cosa di cui vado più orgogliosa». —