la Repubblica, 21 novembre 2023
Intervista a Lina Botero
Alla pienezza dei volumi Fernando Botero si allenava a Firenze. Con l’audacia del colore si misurava in Messico, a confronto con i muralisti. La sua joie de vivre, dentro e fuori la linearità gonfia della sua pittura e della sua scultura, giungeva dalla sua terra, la Colombia. Le composizioni, sempre fitte e paradossali, le allenava nei taccuini. Al centro erano i ricordi della sua infanzia a Medellín, città dell’eterna primavera sfregiata dal più potente cartello del narcotraffico. Lo racconta con voce ancora rotta, la figlia Lina, a poche ore dall’inaugurazione della prima mostra dalla scomparsa del padre, avvenuta il 15 settembre all’età di 91 anni.
Alla Permanente di Milano (dal 23 novembre al 4 febbraio) si raccoglie un ciclo inaspettato perché dolente, lontano dalla giovialità elevata a stile che lo ha reso popstar della pittura e campione del mercato (il 7 novembre un suo dipinto all’incanto da Christie’s ha raddoppiato la stima, con un record di oltre 5 milioni di dollari). Questa Via Crucis in abiti contemporanei (2010-2011), composta da 60 opere, tra oli e matite dal Museo di Antioquia, non racchiude solo pienezza e sensualità, ma anche sopruso, ingiustizia, compassione, come altri cicli drammatici degli ultimi decenni, dalla violenza in Colombia alle torture di Abu Ghraib.
Era credente suo padre?
«Era ateo, ma la “Via Crucis” era per lui un tema plastico e cromatico di grande fascino perché radicato nella storia dell’arte».
Cosa l’ha colpita di quel lungo saluto, tra due mondi, Europa e America Latina, dai funerali di Stato in Colombia (con due camere ardenti, a Bogotá e a Medellín) all’arrivo delle ceneri a Pietrasanta (accanto a quelle della moglie, l’artista greca Sophia Vari, scomparsa nella primavera scorsa)?
«Quel saluto è stato un riconoscimento come essere umano, oltreché come artista. Solo tre colombiani, non presidenti, hanno ricevuto un funerale di Stato in Colombia. Gabriel García Márquez, mia madre nel 2019 (Gloria Zea, ministro della Cultura e direttrice del Museo di arte moderna di Bogotà per quasi mezzo secolo) e ora mio padre».
Cos’ha rappresentato Botero per la Colombia?
«Il più grande artista vivente, ma anche un filantropo dalle iniziative sociali silenziose, come una casa di riposo per 350 anziani e una mensa da 600 coperti. E poi borse di studio, per artisti e musicisti».
Viveva distante, ma nel 2000 donava la sua collezione d’arte a Bogotá e Medellín. Perché?
«Per infondere fiducia. Quella donazione aveva un preciso disegno. Il Paese era sconvolto dalla violenza del narcotraffico. Tra rapimenti e massacri, era uno dei peggiori momenti nella storia recente della Colombia».
Fernando Botero, Jesùs y la multitud, 2010
Fernando Botero, Jesùs y la multitud, 2010
Quali opere aveva raccolto?
«Ciò che amava e lo ispirava, dagli impressionisti a Bacon a Rauschenberg, fino a Picasso,
Dalí ed Ernst».
Cosa significava donare per lui?
«Raggiungere le persone più umili con l’arte. Io non capivo perché privarsi anche delle opere nei suoi appartamenti, a New York e a Parigi, lasciando malinconici chiodi alle pareti. Lui ripeteva: se un regalo non punge il cuore, non è un regalo».
Perché le spoglie riposano a Pietrasanta?
«Era il luogo di elezione, al centro della sua geografia dell’arte. Per 40 anni fu la sua casa estiva della scultura, un lavoro che non si conciliava con la pittura, perché troppo polveroso».
Dove dipingeva?
«A Parigi, ma senza eserciti di assistenti perché solo lui poteva toccare i suoi dipinti».
E il disegno?
«Un’attività febbrile, raccolta in una montagna di taccuini che guardava e riguardava. Non ha mai creduto nell’ispirazione improvvisa, piuttosto in un lungo lavoro di progettazione».
Un aneddoto della sua infanzia?
«Orfano di padre, lo zio lo aveva iscritto all’Accademia di tauromachia. A 12 anni lo colpì un toro da 500 chili e da allora decise che la corrida l’avrebbe solo dipinta. Il primo acquerello lo vendette a 5 pesos, alla biglietteria nella Plaza de Toros. La felicità e la corsa pazza verso casa glieli fecero però perdere per strada e nessuno gli credette».
Che cosa lo legava all’Italia?
«La pittura del Quattrocento. L’epifania fu a 19 anni, tornando dal Prado a Madrid, dove copiava i capolavori di Velázquez grazie a una borsa di studio. L’emozione di fronte a una riproduzione di un affresco di Piero della Francesca, in cui si era imbattuto in una libreria, lo condusse a rivoluzionare i suoi studi e a trasferirsi a Firenze per due anni. Tra gli affreschi di Paolo Uccello e i testi di Bernard Berenson, iniziò a razionalizzare quel suo fascino verso il volume».
Poi scelse il Messico, la mecca degli artisti latinoamericani negli anni Cinquanta, che cosa imparò lì? «A non aver paura del colore. Dai muralisti captò il valore del compromesso tra l’arte europea e le radici della sua terra. Capì che la sua arte, per essere davvero universale, doveva essere locale».
Che cosa si fa oggi per la sua opera?
«Lavoriamo alla creazione di una fondazione, a un catalogo ragionato ma anche a due grandi mostre museali in Italia»
Qual era il rapporto di suo padre con la critica?
«Nessuno. Ero solo una bambina quando decise di non leggere più nulla, né di positivo, né di negativo. Il suo nord era solo la sua pittura. Il resto, ininfluente».
E quando lo definivano il “Picasso colombiano”?
«Sorrideva, molti erano i legami tra loro, dalla corrida al circo».
Ci fu mai un incontro?
«No, a vent’anni, ad Antibes, bussò senza esito alla sua porta, aspettando tutto il giorno».
Che cosa non è stato compreso della sua opera finora?
«Non ha mai dipinto corpi grassi, ma un universo di volumi puri. Oggetti, montagne, animali, frutti, ogni elemento racchiudeva la medesima esaltazione voluttuosa e sensuale».
Che cosa significava l’arte per lui?
«Gioia pura e insostituibile. Il suo legame con la vita. L’arte era al primo, al secondo, al terzo e al decimo posto. Quattro giorni prima di morire, dipingeva il suo ultimo acquerello nel suo studio, immerso in un silenzio irreale. Era tutto ciò che desiderava».