La Stampa, 20 novembre 2023
Intervista a Nanni Moretti
I dibattiti hanno le loro regole e così Nanni Moretti, in un sabato sera nel cuore della Garbatella, davanti alla platea stracolma, dove è stato appena proiettato il suo film Sogni d’oro, si rivolge agli organizzatori e chiede un bicchier d’acqua. Gliene portano vari, uno dopo l’altro, e lui, tra sorsi e sorrisi a metà, racconta, ricorda, risponde: «Lavoro contro i cliché, e anche contro me stesso». L’incontro, nell’ambito del Palladium Film Festival CineMaOltre, diretto da Vito Zagarrio e organizzata dall’Università Roma Tre, avrebbe dovuto svolgersi dopo la presentazione del documentario La Cosa, c’è stato un cambio di titolo, ma il film, girato nell’89, mentre il Pci si dissolveva per far spazio alla rifondazione proposta dal segretario Achille Occhetto, è ancora occasione di memorie e ricostruzioni: «Non l’ho fatto per dimostrare qualcosa o convincere qualcuno. Dopo il crollo del Muro di Berlino, Occhetto aveva deciso di cambiare nome al partito, le sue dichiarazioni provocarono una grande discussione all’interno delle sezioni italiane. Volevo capire che cosa stesse succedendo, tutto il Paese seguiva con interesse quegli avvenimenti». L’opera andò in onda su Rai 3 il 6 marzo 1990, alla viglia del Congresso di Bologna: «Nelle sezioni del Pci sparse in tutta Italia ci fu una vera autocoscienza collettiva, per i militanti erano in gioco cose vitali. Capirono che, da quel momento, il loro rapporto totalizzante con la politica, sarebbe cambiato». Un rapporto, sottolinea Moretti, «in cui persisteva un legame forte con l’Unione Sovietica e con i Paesi del blocco orientale. Anche i giovani avevano una relazione ombelicale con quell’area. Non lo avevo previsto».La politica, ci tiene a dire il regista, è stato un cammino parallelo a quello cinematografico: «Non ho mai girato un film per mettere un tema sul tavolo e dire allo spettatore che era importante, non ho ritenuto che il compito dell’intellettuale fosse questo. Ho tenuto separate le cose». E questa vale anche per l’epoca dei girotondi, all’alba degli anni Duemila: «C’erano battaglie in cui credevo, invece di far usare la mia faccia da altri, ho preferito mettercela io stesso, partecipando al movimento, da semplice cittadino». Ogni tanto, poi, è successo che, nei suoi film, Moretti abbia visto oltre, mettendo in scena situazioni che apparivano estreme o impossibili e che poi si sono puntualmente verificate. È accaduto nel Caimano, in Habemus papam, e anche in Sogni d’oro di cui resta, indimenticabile, la sequenza surreale del quiz tv con i concorrenti vestiti da pinguini: «Ogni tanto mi è stato detto che sono preveggente, ma credo che certe immagini vengano solo dall’attenzione alla realtà che ci circonda e alle tendenze che esprime. Avevo intravisto, quando ho girato Sogni d’oro, la piega che stava prendendo la tv in Italia e ho voluto raccontare quell’aspetto. Diciamo che sono stato un po’ attento e un po’ fortunato». L’autoanalisi sui film girati non è tra gli sport preferiti dall’autore: «Più passa il tempo e più amo il mio lavoro, ma riesco sempre meno a teorizzare sulle mie scelte. Non le so spiegare, non sono un esperto dei miei film».Un lavoro, in fin dei conti, che spetta ad altri, soprattutto al pubblico che, di generazione in generazione, si è ritrovato nelle storie morettiane, nella «compresenza di momenti dolorosi e comici, così come accade nella vita», nell’«ironia e nell’auto-ironia», in una regia che considera «la semplicità come punto d’arrivo»: «Quando ho girato Ecce bombo pensavo di aver fatto un film doloroso per pochi, invece è risultato un film comico per tutti». Un successo enorme, su cui in pochi avrebbero scommesso: «Il produttore mi disse “sono affezionato a questo film, in modo particolare, come accade con i figli problematici"». Nelle sale, invece, il film diventava un caso, un manifesto generazionale: «Non ho mai preteso di conoscere i gusti del pubblico e non pensavo che, per tanta gente, si scatenasse una tale corsa all’identificazione. Raccontavo un gruppo di giovani romani di media, piccola, e piccolissima borghesia di sinistra che, stanchi della militanza politica, creano un piccolo gruppo di autocoscienza maschile». Molte battute dei personaggi di quella e altre storie sono entrate nel linguaggio, e ci sono rimaste: «Ho continuato a percorrere la mia strada, il mio lavoro di spettatore ha influenzato spesso quello di regista. Sono sempre stato legato al cinema d’autore Anni ’60, al “free cinema” inglese, ai Taviani, a Olmi, Ferreri, Pasolini, Bellocchio, ognuno con la propria sensibilità. Era un’epoca in cui si immaginava che un possibile nuovo cinema potesse corrispondere a una possibile nuova società, in cui fosse lecito prefigurare nuove relazioni tra le persone». f. c. —