La Stampa, 20 novembre 2023
Una stanza per scrivere
Una volta ci ho provato. Era il 1997, credo: da poco mi ero tuffato nell’impresa dei Meridiani su Pasolini. Graziella Chiarcossi e Vincenzo Cerami mi avevano fatto un’offerta molto allettante. Siccome stavo scrivendo il mio secondo romanzo (quello che poi sarebbe uscito col titolo Un dolore normale), mi dissero che se volevo potevo per un paio di settimane andare a lavorare nella loro casa di Sabaudia, quella appunto che era stata di Pasolini (loro dicevano «Pier Paolo»). Probabilmente eravamo in un periodo dell’anno non marinaro, tipo aprile, e la casa era vuota. La stanza in cui dormivo e lavoravo era la stessa dove aveva dormito e lavorato Pasolini: la scrivania stava sotto la gigantesca finestra, più che una finestra una lunga vetrata; la cornice del vetro tagliava fuori la poca striscia di spiaggia, sicché alzando gli occhi dal foglio si aveva l’impressione di essere direttamente sul bordo del mare, come se il tavolo fosse la tolda di una nave. Io, un ricordo letterario e il mare: quale situazione migliore per sollecitare le più sublimi ispirazioni? Qui lavorerò benissimo, grazie grazie. Invece, passati i quindici giorni, avevo in mano qualcosa di morto e di stonato: non era la mia scrittura, tant’è vero che dovetti poi riscrivere il tutto nel mio appartamentino di via Vespasiano a Roma. Di quel soggiorno mi restarono soltanto i gabbiani in fila come soldatini, quando stremato mi alzavo dalla scrivania e mi affacciavo direttamente sulla spiaggia. La colpa era stata solo mia: quel luogo di lusso non mi apparteneva, mi pareva di averlo rubato. Era un luogo troppo marcato, troppo segnato da altri – le parole non avevano il coraggio di attraversarlo, ero rimasto solo con le mie ambizioni sbagliate (non per niente l’altra metà della casa apparteneva a Carmen Llera, l’ultima compagna di Moravia).
Io posso scrivere solo se sto chiuso nella mia stanza, in una casa dove non abiti nessun altro; l’altrove me lo arrangio da me, arredandola con oggetti di provenienza esotica. Nella foto che qui illustra il mio luogo di scrittura, la presenza più importante è la maschera di Ganesh: il dio-elefante, come si sa, si spezzò volontariamente una zanna per scrivere con quella, sotto dettatura, il Mahabharata; lo prego nel povero modo che so. Un’altra presenza che ha molto a che fare con le radici della mia ispirazione è quella delle sfere; ne possiedo più di cinquanta, in marmo e in pietradura – l’accrocco sul comodino è responsabilità del fotografo, che ne ha scelte tre: una di lava levigata proveniente da Lanzarote, una di scaglie d’osso che comprai a Salvador de Bahia e una di marmo rosso veronese che mi regalò Stefano Giovanardi dopo che l’avevo (come si diceva nell’orribile gergo dei baroni universitari) «messo in cattedra». La coperta sul letto proviene da Jaipur. Miserabile snobismo piccolo-borghese, ma anche qualcos’altro di meno spregevole: i souvenir dei miei viaggi, nel momento in cui scrivo, funzionano come trappole. È come se io dicessi alle parole «sono qui, nel mio luogo neutro, lo spazio del mondo è annullato da questi risibili simboli turistici, la strada è libera, potete venire». La camera da letto (sì, scrivo in camera da letto, sdraiato a pancia sotto, nella posizione del mio infantile onanismo) diventa un luogo dove lo spazio non esiste più, mentre il tempo è regolato dai bisogni primari della fame e della stanchezza.
L’importante è la passività. Mentre scrivo, devo diventare un semplice ricettore: la parte attiva (i sopralluoghi, le letture, la documentazione, i colloqui, gli amori, le insofferenze, insomma la vita) è già accaduta, ora si tratta di lasciar venire le frasi, il ritmo, in una momentanea capsula di vuoto. Se qualche parola è renitente, mi giro a pancia in su e ho sopra di me soltanto il bianco del soffitto, resto a fissarlo finché la parola non arriva. Il rito in verità è più complesso: i fogli protocollo, il quaderno e i due pennarelli che il fotografo ha collocato sul letto ne sono un’epitome, un’evocazione. Le tappe sono queste: 1) mi segno su dei block-notes tutto quel che mi viene in mente, come se fosse uno zibaldone; 2) quando di block-notes ne ho riempiti tre o quattro, numero tutte le pagine; 3) su grandi fogli protocollo, uno per capitolo, trascrivo l’inizio dell’appunto che mi interessa, completo di numero romano del block-notes e numero arabo della pagina; 4) scrivo a mano, col pennarello, la mia dose quotidiana di romanzo, cancellando man mano gli appunti che utilizzo o eliminando quelli che non mi servono più (o inventando cose che il vuoto mi suggerisce e che nei block-notes non c’erano); 5) la sera riporto sul computer la dose quotidiana, stando finalmente seduto e riprendendo il mio posto tra gli umani. Nessuno, come voi ben capite, potrebbe assistere a questa follia; il momento della scrittura, per me, è solitudine e accanimento in uno spazio sottratto al mondo. Non so come facciano quelli e quelle che scrivono al bar, o sul tavolo di cucina mentre i figli frignano intorno. Evidentemente le parole che cercano sono più affabili e loro non soffrono di sociopatia.
Non mi sfuggono la dose di egocentrismo e la disperazione esistenziale. Finora ho parlato del mio rapporto con lo spazio mentre scrivo; il discorso sarebbe più lungo, e forse non spetta a me, se volessi parlare dello spazio che circola nei miei romanzi, cioè dello spazio di cui godono i miei personaggi, compreso l’io. Una cosa che so è che ogni personaggio deve portare con sé una zolla del luogo dov’è nato e dove abita; le madri, per esempio, non possono parlare un italiano standard, devono avere incorporato il loro italiano dialettale. Gli esseri desiderati sono anche contesto, che sia la Firenze sanfredianina o la Roma borgatara o la Milano della borghesia intorno a Brera. Desiderare qualcuno significa anche avere in regalo un pezzo di geografia. (L’ultimo essere desiderato che racconterò, quello del romanzo che sto scrivendo ora, mi sta mettendo in difficoltà perché è uno di quegli escort cosmopoliti che vivono tra Londra, Fort Lauderdale o Singapore, uno che alla propria zolla ci ha rinunciato perché «gli stava stretta».) Ma gli esseri desiderati sono anche un modo per trasportarmi altrove, una fuga dal mondo; molti miei romanzi finiscono con un viaggio esotico (Guatemala, Lanzarote, Fernando de Noronha, ora Creta); il «n’importe où, hors du monde» di Baudelaire continua a essere la mia insegna.Così la mia scrittura risulta lacerata tra due spinte opposte: da una parte il realismo, perché ho bisogno che i luoghi dove i miei personaggi si muovono siano credibili in quanto luoghi “veri” – dall’altra l’astrazione dell’assoluto, perché il solo luogo che riconosco vicino alla poesia è il luogo immaginario. Nell’altra foto, quella dove figura ahimé il mio corpo senile, ci sono due cartoline illustrate alle mie spalle che (senza nessuna premeditazione, giuro, né mia né del fotografo) inscenano questo dissidio: poco sopra la mia testa, a destra per chi guarda, c’è La rencontre di Courbet, il pittore col sacco in spalla per andare a dipingere en plein air; più o meno nella stessa direzione, ma al ripiano sotto della libreria, c’è l’Annunciazione di Filippo Lippi – uno spazio astratto dove a comandare è la prospettiva, cioè la matematica; i due ricchi committenti stanno inginocchiati di fronte all’angelo che non li vede, né loro vedono lui. Le due donne sulle scale sono reali e non reali allo stesso tempo, come dev’essere. Per non parlare dell’Origine du monde (anch’essa di Courbet) seminascosta dalla fallica vela in legno: un quadro pornografico che spinse Picasso a pronunciare una frase famosa: «Le réalisme, c’est l’impossible». —