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 2023  novembre 20 Lunedì calendario

Intervista a Pippo Inzaghi

Roberta ScorraneseL’ex bomber: alleno perché non so stare lontano dal campo

Pippo Inzaghi, come sono i suoi cinquant’anni?
«Sereni. Ho fatto tante cose, ho vinto e ho perso. Se fino a pochi anni fa lei mi avesse chiesto che cosa viene prima nella mia vita io le avrei risposto senza dubbio “il pallone”. Oggi le dico “i miei due figli”».
Edoardo, due anni, e Emilia, nata nel marzo scorso. Porteranno loro le fedi all’altare il prossimo 24 giugno, quando lei e Angela Robusti vi sposerete?
«Se tutto va bene, sì».
In che senso?
«Dovevamo sposarci due anni fa, poi Angela (compagna di Inzaghi dal 2017, ndr) è rimasta incinta. Col tempo ho imparato a programmare di meno e a godermi i giorni».
La sua autobiografia si intitola «Il momento giusto». È un incrocio di casualità e determinazione?
«Da quando ero un ragazzino che giocava nel campetto di cemento di San Nicolò di Piacenza, ho lavorato per diventare un bravo calciatore. Anzi, un grande calciatore: un giorno mi apparve “il fantasma” di Gerd Müller, lo storico attaccante del Bayern Monaco e della Germania Ovest, che aveva segnato 69 reti nelle coppe europee. Ero un ragazzo, rimasi folgorato. Il giorno che ho superato il record di Müller è stato tra i più belli della mia vita».
Più bello della finale di Champions di Atene del 2007 con la maglia del Milan?
«Non esageriamo. La doppietta contro il Liverpool è stata il mio momento più giusto. Due a uno e i tifosi impazziti. Ma lo sa che Berlusconi me lo aveva predetto alla vigilia?»
Davvero?
«La mia presenza in campo è stata in dubbio fino a poche ore prima. Non ero al massimo e si stava già scaldando Gilardino, poi Ancelotti si impuntò. E Berlusconi mi telefonò. “Sono sicuro”, mi disse, “che lei domani farà due gol”. E così fu. Naturalmente, alla fine della partita, il presidente mi chiamò per complimentarsi ma anche per dirmi “Glielo avevo detto io”».
Le manca Berlusconi?
«Molto. Ma di quel Milan mi mancano tante persone. Carlo Ancelotti, per dire. È un uomo intelligente, umano, presente. Una volta per il mio compleanno, che cade il 9 agosto, lasciò libera tutta la squadra per farci festeggiare. Compivo trent’anni: nessuno ci pensa mai, ma la tensione per un calciatore aumenta con l’età».
Le pressioni, gli acciacchi fisici.
«Io ho smesso a 39 anni, oggi un’età ancora molto giovane, ma per noi non è così. Ricordo quando rimasi in Belgio un mese perché mi ero fatto male a una gamba. Il compleanno peggiore di sempre. Ma Ancelotti mi mandò un sms: “Tornerai grande”, diceva. Chissà, pensavo io. Non si è mai sicuri di niente quando si gioca a quei livelli».
È difficile andare avanti, per gli problemi fisici e altro, ma è anche difficile smettere.
«Ricordo benissimo i miei ultimi quattro minuti in campo. Era il 13 maggio 2012, ore 16.45. In verità, per me quelli dovevano essere gli ultimi minuti con il Milan, poi si sono trasformati nei definitivi ultimi. La cosa buffa è che pensavo al ritiro da tempo, come ogni uomo coscienzioso: farò altro, ho vinto tanto, mi dicevo. La verità amara è che la tristezza non la puoi controllare e così, dopo, sono stato malissimo. Per fortuna che c’era la mia famiglia: mamma, papà, il Mone (Simone Inzaghi, il fratello, ndr)».
Se lei dovesse disegnare quella paura, come la rappresenterebbe?
«Non so disegnare, ma era una nera paura del futuro, dei giorni che dovevano arrivare. Vede, a differenza di altri lavoratori che fino a venti o trent’anni studiano o perfezionano studi e professione perché sanno che andranno in pensione tardi, un calciatore entro i quaranta deve chiudere tutto e reinventarsi. Il problema è che per tutta la vita ha seguito uno schema rigoroso, praticamente immutabile: allenamenti, trasferte, ferie a giugno, weekend mai a casa».
E poi arriva, improvviso, lo stop. Tutto cambia.
«Esatto, ma come? Io da calciatore ho sempre odiato la panchina, ma poi ne ho fatto un lavoro, come allenatore, perché io lontano dal campo non ci so stare. Non è debolezza, è umanità. E così si spiega anche perché, da allenatore, sono passato dal Milan al Venezia, cioè Lega Pro: “Tu sei pazzo”, mi dicevano, perché avrei potuto aspettare e trovare di meglio. Ma come avrei fatto per mesi interi senza l’erba del campo?»
A Venezia, poi, ha conosciuto Angela.
«Un caso. Quando ero lì non uscivo mai e, se uscivo, indossavo la tuta. Quella sera non so come andai a una festa. La notai non solo perché è bellissima, ma anche perché era l’unica, insieme a me, ad avere in mano un bicchiere d’acqua. Dopo qualche settimana, venne a stare da me. Dopo due figli e una convivenza ormai rodata, ci sposeremo».
Altre storie importanti, prima di lei?
«Quella con Alessia Ventura, durata tre anni. Oggi lei ha una sua famiglia, abbiamo un bellissimo rapporto di amicizia».
Il sogno erotico da ragazzo?
«Monica Bellucci».
Troppo facile, Pippo.
«Che dire, mi sono sempre piaciute le more e poi mi sono innamorato di una bionda che sto per sposare: ci sarà qualcosa di freudiano».
Lei è superstizioso?
«No, ma avevo una canzone-talismano, che cantavo sempre durante il tragitto fino allo stadio, prima di una partita».
Qual è?
«“Certe notti”, di Ligabue».
L’amore e il bicchiere
A Venezia non uscivo mai, una sera andai a una festa. Notai Angela non solo per la bellezza, ma perché era l’unica, come me, a tenere in mano un bicchiere d’acqua
Ma Luciano tifa Inter!
«Lo so, ma mi ha sempre portato fortuna».
E Laura Pausini, milanista fedele, lo sa?
«Come no, Laura è una grande amica. Quando, nel 2003, festeggiammo la vittoria della Supercoppa Europea ci ritrovammo tutti intorno a un pianoforte, con lei che suonava e io, Galliani, Ambrosini e gli altri che cantavamo le sue canzoni. Molte delle mie vittorie sono state accompagnate da messaggini affettuosi di Laura».
Se le dico «Galliani» qual è la prima parola che le viene in mente?
«Corteggiamento».
L’ha corteggiata a lungo?
«Quando ero a Torino, certo. Ma Galliani è una persona speciale, sa essere intelligente e lungimirante. Fu lui a offrirmi subito la panchina di allenatore Allievi Nazionali rossoneri dopo l’addio al campo da giocatore».
È vero che per passare dalla Juve al Milan lei rinunciò a un sacco di soldi?
«Galliani mi telefonò: “Pippo, ballano cinque miliardi di lire e non riusciamo a trovare una soluzione”. D’istinto, risposi: “Non si preoccupi, ce li metto io”. Avrei firmato un contratto di cinque anni e rinunciato a un miliardo di stipendio per ciascuna stagione».
Mamma e papà come reagirono?
«Applaudirono. Perché loro ci hanno sempre insegnato a inseguire il cuore e non il portafoglio. Oggi li ringrazio anche per questo».
E se le dico «Barbara Berlusconi»?
«Gentilezza».
Che gelo.
«Ma no, lei mi ha aiutato. In generale, tutta la famiglia Berlusconi mi ha aiutato, la mia maglia ce l’ha Luigi, che ho incontrato in vacanza».
Che cosa rappresenta per lei «il Mone», Simone Inzaghi, il fratello di appena due anni più giovane eppure così simile a lei?
«Potrei risponderle “tutto”. Sa che non abbiamo mai litigato? Cosa rarissima tra fratelli. Ogni volta che uno dei due finisce una partita, la prima telefonata è per l’altro».
Vi somigliate moltissimo.
«La verità è che adesso lui è quello famoso e per strada capita che mi chiamino Simone. Non può che farmi piacere, anche perché so bene che cosa vuol dire allenare una squadra a grandi livelli» (attualmente Simone allena l’Inter, ndr).
Qual è il suo sogno ricorrente?
«Sa che non sogno mai?»
Baresi ha confidato al «Corriere» che sogna sempre la finale di Champions.
«Io no, anche perché dopo la doppietta alla finale di Atene non dormii per dieci giorni di fila».
Se le dico «Torino» che cosa le viene in mente?
«Una strana gioia. Certo, non quella gioia piena che mi dà San Siro, però anche il periodo con la Juve è stato bello. Quando battei il record di Müller tra i messaggini che arrivarono c’era anche quello di Andrea Agnelli».
Quando è stato il momento preciso in cui lei ha capito di essere diventato adulto?
«Paradossalmente quando ho smesso di giocare. Perché hai la netta sensazione che sia finita una giovinezza, che ti aspetta un lungo futuro ma non sai quale e soprattutto non sai come costruirlo. Sei curioso e preoccupato al tempo stesso».
Se le dico «Paolo Rossi»?
«Insieme a Luca Vialli è stato per me un esempio sempre vivo. L’uomo veniva prima del campione. Stessa cosa la dico per Vialli: Un giorno avevo accettato un invito di Sky solo per poter essere ospite in tv insieme a lui».
Un altro esempio di «calcio etico»?
«Il 24 marzo 1996: giocavo con il Parma e quel giorno sfidavamo il Milan che stava volando verso lo scudetto. Inseguii un pallone sul quale c’erano Maldini e Baresi. Li spinsi, puntando sull’astuzia: loro si scontrarono e caddero, io andai verso la palla. Ma Paolo e Franco si allearono, mi raggiunsero, entrarono insieme e mi sollevarono da terra».
Il primo gol a San Siro?

«Il 3 novembre 1996, con la maglia dell’Atalanta. Dribblai Costacurta e chiusi con un destro violento sotto la traversa. Doppia ammonizione, prima espulsione in Serie A. Ma da allora in tutta la carriera in campionato non avrei più preso un cartellino rosso».