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 2023  novembre 20 Lunedì calendario

COsa vogliono i Brics


Il mondo «non occidentale» alza il livello della sfida all’egemonia economica e finanziaria degli Stati Uniti. Dal primo gennaio 2024, sei Paesi, cioè Iran, Arabia Saudita, Egitto, Argentina, Emirati Arabi ed Etiopia, si uniranno al gruppo dei «Brics» vale a dire Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Sarà il primo passaggio di una specie di «big bang» che aspira a cambiare gli equilibri geoeconomici del mondo. Almeno altri 40 Stati hanno già chiesto di entrare nel club, dall’Algeria all’Indonesia, da Cuba al Kazakistan al Gabon.
Si sta formando, dunque, una coalizione che salda grandi potenze, come Cina, India e Russia, a nazioni africane, asiatiche, sudafricane ancora in via di sviluppo. C’era anche questo messaggio nel vertice di mercoledì 15 novembre fra il leader cinese Xi Jinping e il presidente americano Joe Biden, a San Francisco. «Il mondo – ha detto Xi – è abbastanza vasto per tutti e due. Cina e Stati Uniti sono pienamente capaci di crescere, nonostante le differenze». Come dire: porte aperte ai capitali occidentali, ma competizione a tutto campo  con Washington per il primato planetario.
Nascita dei BricsLa sigla Bric fu coniata nel 2001 da Jim O’Neill, capo economista della banca d’affari americana Goldman Sachs, per indicare quattro realtà su cui puntare per investimenti ad alto potenziale, visto il loro sviluppo tumultuoso. La previsione di O’Neill, in realtà, non teneva conto che stava iniziando anche un processo politico-diplomatico. I governi di Brasile, Russia, India e Cina avevano già avviato un dialogo che giunse a maturazione con il primo vertice, ospitato nel sud della Russia, a Ekaterinburg, il 16 giugno del 2009. Nel 2010 i quattro fondatori decisero di aprire al dinamico Sudafrica. E così i Bric diventarono Brics.
G7 e Brics a confrontoIl Fondo monetario internazionale (Fmi) nota che nel 2022 i cinque Brics hanno prodotto il 31,5% del Prodotto lordo mondiale, a parità di potere d’acquisto. Dal prossimo gennaio, con la formazione a 11, la quota della ricchezza totale continuerà ad allargarsi: 38,5% nel 2028. 
Giusto per avere un termine di paragone: nel 2022 l’Unione europea ha coperto il 14,5% del Pil mondiale (sempre a parità di potere d’acquisto); mentre il G7, il 30,3%. E nel 2028 la loro fetta di ricchezza si ridurrà ancora: quella della Ue (13,7%), quella del G7 (27,7%). Nel blocco G7-Ue vivono 1,03 miliardi di persone, nei «Brics plus» 3,6 miliardi. Il G7 può contare su riserve d’oro per 17.527 tonnellate, i Brics hanno 5.493 tonnellate. Ma gli «emergenti» già ora dispongono del 21% dello stock petrolifero e con l’arrivo di Arabia Saudita, Emirati Arabi e Iran toccheranno la soglia del 41%.
Sul fronte occidentale gli unici due produttori, cioè Stati Uniti e Canada, valgono rispettivamente il 20 e il 6%. Ma il punto è: quali sono gli obiettivi, dove vogliono e,soprattutto, possono arrivare i «Brics plus».
Gli obiettiviIl loro scopo dichiarato è costruire un ordine economico, commerciale e finanziario alternativo a quello creato dagli Stati Uniti alla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Il primo passo è già stato compiuto: la costituzione della «Nuova Banca di Sviluppo» (Nbd). Ha cominciato a operare nel 2016, dalla sede di Shanghai, con l’ambizione di diventare il Fondo monetario dei Paesi emergenti: prestare denaro ai governi in difficoltà senza chiedere drastiche riforme. Gli azionisti della Banca sono i cinque Brics, a cui si sono aggiunti Egitto, Bangladesh ed Emirati Arabi.
In sette anni di attività la Ndb ha messo in campo l’equivalente di 30 miliardi di dollari per finanziare circa 100 progetti legati alle infrastrutture, con il proposito di arrivare a 350 miliardi entro il 2030, scavalcando il Fmi che, al 15 novembre 2023, sta gestendo prestiti per circa 110 miliardi di dollari. La Nbd movimenta soprattutto le valute locali, nel quadro di una strategia più ampia: liberarsi della «dittatura del dollaro».
Una moneta alternativa al dollaroIl tema è stato al centro dell’ultimo summit dei Brics, il 24 agosto 2023, a Johannesburg, in Sudafrica. Xi Jinping, Lula, Modi, il ministro russo Sergei Lavrov, il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa sono partiti dalla centralità del dollaro. La moneta americana regola il 60% degli scambi commerciali internazionali e l’89% delle transazioni sul mercato dei cambi, cioè l’acquisto o la vendita di valuta. Mentre le emissioni di obbligazioni internazionali denominate in dollari sono passate dal 38,5% del 2003 al 48,5% del 2023. Ciò significa che negli ultimi vent’anni sempre più Stati e sempre più imprese pubbliche o private si sono affidate alla moneta Usa per cercare risorse sui mercati finanziari esteri.
Ma i «Brics plus» sarebbero davvero in grado di lanciare una moneta unica, magari sul modello dell’euro, ideata e sperimentata da zero? La risposta largamente diffusa negli ambienti finanziari mondiali è «no»; e sarà così per un lungo periodo.
Pechino candida lo yuan Intanto il governo di Pechino sta spingendo per candidare la propria moneta, lo yuan, a diventare l’alternativa alla divisa americana. Ma parte da molto lontano: oggi lo yuan copre soltanto il 2,6% delle riserve valutarie nel mondo, contro il 5,8% dello yen giapponese, il 4,8% della sterlina britannica, il 20% dell’euro e il 59% del dollaro.
A partire dal 2005 Pechino ha concluso una serie di accordi con le banche centrali, tra l’altro, di Malesia, Argentina, Nigeria per offrire lo yuan come moneta per le riserve valutarie.
Inoltre i cinesi hanno sviluppato una piattaforma bancaria, insieme a Thailandia, Hong Kong ed Emirati Arabi, da usare in alternativa allo Swift, il sistema più usato dagli istituti di credito mondiali per regolare i pagamenti finanziari e commerciali. L’India e l’Indonesia però hanno già fatto sapere di non essere interessati a sostituire il dominio del dollaro con quello dello yuan.
Mentre il presidente brasiliano Lula propone: «Quando commerciamo tra noi, possiamo farlo tranquillamente usando le nostre monete».
La mappa degli scambi mondialiL’idea di Lula, però, potrebbe avere un impatto limitato. A cominciare dai giganti Cina e India. Nel 2022 il traffico tra i due Paesi è salito dell’8,2%, toccando la soglia di 135,9 miliardi di dollari.
L’interscambio tra Usa e India è stato pari a 191,8 miliardi di dollari; quello tra Usa e Cina addirittura a 758,4 miliardi. Alla prova dei fatti, quindi, i Brics non sono ancora nelle condizioni di poter fare a meno degli Stati Uniti e dell’Occidente, dei suoi prodotti, della sua tecnologia, e della sua moneta di riferimento. Resta poi il nodo politico: difficile immaginare che questi 11 Paesi e quelli che verranno possano muoversi in maniera compatta, e quindi condizionare il confronto negli organismi internazionali, o nel G20, il gruppo che riunisce periodicamente i leader delle prime 20 economie del pianeta.
La Cina non ha condannato esplicitamente l’aggressione putiniana a Kiev. L’India lo ha fatto. Le dispute sui confini nazionali tra Pechino e Nuova Delhi sono costanti.
Xi Jinping si propone di oscurare l’influenza americana nella regione dell’Indo-Pacifico. Il premier indiano, Modi, invece, coltiva il dialogo con Joe Biden.
Sul Medio Oriente: l’Iran vuole cancellare Israele dalla faccia della terra; l’Arabia Saudita era pronta a firmare un’intesa di cooperazione economica con Tel Aviv, in cambio della protezione militare di Washington, nonché della tecnologia a uso civile americana. La reazione israeliana all’attacco terroristico a Gaza, però, ha ricompattato, almeno per il momento, il mondo musulmano contro il governo di Benjamin Netanyahu.
Le sfide del «Brics plus», dunque, saranno due. Quella verso l’Occidente e, in parallelo, quella di spianare le differenze politiche interne, in modo da condividere la strategia su moneta, commerci, investimenti per mettere in discussione la centralità geoeconomica occidentale.