la Repubblica, 19 novembre 2023
In morte di Daisaku Ikeda
Sono quelli di “nam myo-ho renge kyo”, il mantra che recitano in continuazione, da soli o in gruppo, a casa o in luoghi di culto che chiamano kaikan. Sono i quasi centomila, solo in Italia, buddisti che fanno parte della Soka Gakkai: un’istituzione religiosa secondo molti (compreso lo Stato italiano che le ha riconosciuto il diritto all’8 per mille), una setta ricca e ramificata in tutto il mondo dai contorni ambigui, secondo i detrattori. Da ieri, che li si consideri bodhisattva della terra come aspirano a essere, oppure oggetti sconosciuti di goffa importazione orientale, soffrono con grande compostezza la perdita più grave: sono rimasti orfani del loro presidente-sensei, Daisaku Ikeda, morto in Giappone a 95 anni. Difficile definirne la figura soltanto in termini biografici. Terzo presidente della Soka Gakkai dopo il leggendario fondatore, il pedagogo antimilitarista Tsunetsaburo Makiguchi e Josei Toda che con il primo condivise l’esperienza del carcere del Giappone imperiale per le posizioni laiche e anti-shintoiste, Ikeda dal 1960 a ieri ha reso la sua scuola buddista una realtà internazionale con oltre dieci milioni di fedeli in quasi duecento Paesi. E come per tutte le grandi figure spirituali ma pur sempre umane troppo umane, la sua filosofia e il suo impegno sui grandi temi della pace, dell’ambiente e soprattutto di una grande crescita di consapevolezza del genere umano attraverso l’insegnamento del buddismo non hanno e non avranno giudizi unanimi.
Grande uomo di pace o leader dedito al culto della personalità, scrittore e studioso prolifico o instancabile proselitista, candidato al Nobel della pace o miliardario a spese dei fedeli, attivista visionario o persuasore politico occulto, come sempre accade per alcuni sarà stato un liberatore dell’umanità e per altri l’ennesimo spregiudicato uomo di potere a cavalcare la storia. Ma dove la biografia e il giudizio su Ikeda si fermano, qualche domanda di senso filosofico invece continua a camminare. E cammina qui, nell’estremo occidente, a migliaia di chilometri di distanza e a più di mille anni da dove tutto è cominciato, nel Giappone del Tredicesimo secolo, quando il buddismo aveva già quasi due millenni di storia. La Soka Gakkai infatti non nasce dal nulla, ma fonda i suoi principi sull’insegnamento di Nichiren Daishonin, un monaco vissuto durante il periodo Kamakura che, come centinaia di volte nella storia del buddismo, fa compiere un altro giro alla grande ruote del dharma, cioè della legge e della dottrina, annunciata dal Buddha Sakyamuni in India nel Sesto secolo a.C. Per quanto possa sembrare temerario riassumere in poche righe la storia, c’erano già stati, dopo la morte del Buddha e i concili che ne seguirono, il buddhismo ortodosso (secondo chi lo professava, ovviamente) del Piccolo veicolo, la rivoluzione del Grande veicolo e le infinite scuole che da esso derivarono: la Madhyamika con la dottrina del vuoto di Nagarjuna (molti suoi ammiratori loassimilano ancora oggi a un Kant orientale), le teorie idealistiche Yogacara (ecco Hegel), la teorizzazione d ei livelli di coscienza di Vasubandhu (Freud e Jung si fermano prima). Per non parlare del pantheon del buddismo Vairajana e delle montagne del Tibet e la tradizione tantrica di Milarepa e poi, in una differenziazione che diventava insieme dottrinale e geografica, le grandi scuole del Chan in Cina divenuto Zen in Giappone. Senza contare, in una storia di eresie e scissioni al cui confronto il Cristianesimo si riduce a un piccolo seppur sanguinoso breviario, le miriadi di scuole, confraternite, eremiti, predicatori itineranti, profeti, guru, santi, asceti e ribelli che rinnovavano ciò che era in fondo il genio del buddismo, nato anch’esso come la madre di tutte le eresie contro il brahmanesimo di cui negò fin nel profondo la verità ultima: l’esistenza stessa non solo del brahman, ma della realtà.
Bene, Nichiren prese tutto questo e insegnò che il vero segreto del Buddha è contenuto, tra tutti i discorsi tramandati, in un unico sutra: quello del loto. E che un’intensa devozione a quel testo, accompagnata dalla recita anche solo del nome del sutra (ecco il famoso “nam myo-ho renge kyo”) avrebbe portato – non va dimenticato mai che lo scopo è sempre questo da Sakyamuni a Nichiren – al Nirvana, al divino, alla liberazione in vita. Detto in altre parole, comprensibili ovunque, alla felicità in questo mondo che è tra l’altro il titolo del libro più venduto di Ikeda. E arriviamo così a oggi. La domanda che risuona da anni, specie qui in Italia dove i sostenitori della Soka Gakkai sono in percentuale tra i più numerosi al mondo, è: che cosa ha a che fare con noi il dharma di un monaco giapponese vissuto 800 anni fa? Perché c’è chi ha trovato nella meravigliosa legge del loto riaggiornata e portata in occidente da Ikeda e i suoi predecessori le risposte che cercava o almeno una strada per cercarle?
La conclusione più razionale è che il buddismo, quasi scomparso dai suoi luoghi originari, ha continuato a diffondersi nei secoli cambiando e adattandosi alle latitudini che lambiva. Come una forza fluida e viscosa ha riempito categorie mentali e aspirazioni umane universali dando loro nuova energia. La sua flessibilità, la sua tolleranza, la ripugnanza per i dogmi, l’inclinazione al lavoro individuale su se stessi, il lucido ateismo sciolgono i contorni del suo corpo dottrinale che i buddisti chiamerebbero uno dei corpi del Buddha e lo rendono dolce, compassionevole e poco invasivo.
Ridurre la sterminata complessità degli insegnamenti buddisti a un singolo sutra, anzi a un singolo mantra che ne riproduce il titolo, è uno degli elementi del successo della scuola di Ikeda in occidente. Le pratiche di recitazione e concentrazione sui mandala chiamati Gohonzon, sempre più numerosi nelle case occidentali, calmano il flusso di pensieri e aiutano a dissipare le illusioni e le false ambizioni dell’uomo moderno. Gli obiettivi su cui i fedeli si concentrano per ottenere risultati molto pratici – e che spesso non risparmiano loro feroci ironie sulla pochezza dei loro orizzonti – rivelano con l’andare del tempo e della pratica la loro vacuità scoprendo un orizzonte spirituale più ampio e più lucido. Lo studio solitario o in gruppo dei testi di Nichiren, tradotti e commentati dalla casa editrice della Soka Gakkai in un’opera di valore filosofico e filologico, soddisfa anche chi per indole non si accontenta di risposte semplici.
Dicono ci sia il rischio di una personalizzazione del credo, di una religione fai da te, di un cammino cieco e senza guida. C’è sempre questo rischio, specie in questa nostra età del silicio e dei social e c’è in tutti gli aspetti della nostra vita, dall’educazione, alla conoscenza alla politica. Ma alla morte di Ikeda, avvenuta nello stesso giorno in cui la Soka Gakkai fu fondata nel 1930, i suoi allievi hanno di fronte il grande bivio: sfaldarsi come polvere di infiniti mondi in frantumi oppure prendere la guida delle loro vite e diventare quello che cercano di essere, come giusti che reggono il mondo anelando alla liberazione e ai suoi sinonimi conoscenza e compassione. Come bodhisattva della terra. Felici in questa vita, alla prossima ci penseremo.
Il suo pensiero cammina qui, in occidente, a migliaia di chilometri di distanza e a più di mille anni da dove tutto è cominciato