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 2023  novembre 18 Sabato calendario

Intervista a Rubik

MILANO – Se i quaranta-cinquantenni d’oggi sono così, la colpa (o il merito, a scelta) è anche di un ungherese di 79 anni che esattamente mezzo secolo fa iniziò a inventare un cubo. Pardon, il Cubo. Il Cubo di Rubik. Uno dei primi giocattoli a diffusione mondiale: da buon cubo, sei facceda rendere omogenee di colore, sgranando ogni fila di qua e di là, in su e in giù. I bambini di allora divennero pazzi o geni, o entrambe le cose. Ern? Rubik è a Milano a “Entra in gioco”, manifestazione che debutta al Superstudio Maxi di via Moncucco 35: alle 16,30 chiacchiererà in pubblico con Francesco Lancia e Luca Fois e soprattutto farà il firmacubo, l’equivalente ludico del firmacopie dei libri. D’altronde il Rubik’s, come si chiama il gioco edito da Spin Master, ha venduto finora circa mezzo miliardo di copie. Un classico proprio come certi romanzi.
Signor Rubik, lei è e resterà sempre non “Quello del Cubo”, ma proprio “il” Cubo. Che effetto fa?
«Ho sempre cercato di star fuori dalla ribalta, e per fortuna poche persone fuori dall’Ungheria capivano cheRubik era un cognome. Così era come se fossi il genitore di un divo dello sport: mi godevo i risultati di mio figlio, però stando nell’ombra. Mi fa comunque piacere essere associato a un gioco, anche al Rubik’s Magic, che arrivò poco dopo (in Italia gli Anelli di Rubik, ndr )».
Ci racconti di lei prima di quel 1973. Da bambino vide la Rivoluzione Ungherese del 1956.
Che ricordi ne ha?
«Vividissimi. Abitavo proprio a Budapest, e in centro. Avevo 12 anni e non posso dimenticare i carri armati sovietici che giravano nella zona del Parlamento, e i miei connazionali che li combattevano in modo fiero e disperato. Poi andai all’università, mi laureai in Architettura e divenni assistente. E lì inventai il Cubo».
Come?
«Nel mio tempo libero. Mi pareva un buon modo per dimostrare in modo pratico ai miei studenti la rotazione su un asse. Ma ci misi tanto: tentavo, sbagliavo, ritentavo, e ogni errore mi faceva capire qualcosa mi avvicinava sempre più alla soluzione. Che arrivò nella primavera dell’anno seguente».
Però, quando ebbe in mano il risultato finale, memore di tutti questi errori, avrà risolto il Cubo in pochi secondi, no?
«Eh, come no? Ci misi un mese! Ma non può immaginare la soddisfazione».
Forse sì, invece.
«Sa, è che a un certo punto pensavo che fosse un gioco semplicemente irrisolvibile, che le difficoltà di dare a ogni faccia un colore solo fossero anche maggiori dell’inventarlo.
Invece è solo questione di trovare la strada di casa».
Il “Rubik’s” la strada la trovò, prima in Ungheria, 3 milioni venduti su 10 milioni di abitanti, poi nel mondo. Quanto ne fu sorpreso?
«Poco, ma per il banale motivo che ero troppo impegnato a non farmi travolgere dal successo».
E che ragione si diede di questo dilagare planetario?
«La stessa per cui ne parliamo ancora. Il Cubo ha un appeal universale: non ha barriere di lingua e cultura, non servono manuali di istruzioni, lo scopo del gioco è chiaro appena lo prendi in mano, non ci sono limiti di età, genere, religione, cultura. Richiama temi universali come la curiosità, la capacità di risolvere problemi, la perseveranza, la gioia di ottenere un risultato finale».
Tra qualche giorno saranno 70 anni da Inghilterra-Ungheria, dove la sua Nazionale vinse 6-3 a Wembley, la cosiddetta “partita del secolo”. Il leader di quella squadra, Ferenc Puskás, aveva fantasia e improvvisazione, le doti che servirebbero a risolvere il Cubo.
Concorda?
«No. L’improvvisazione non porta tanto lontano, col Cubo.
L’immaginazione sì, ma è tutt’altra cosa, così come il libero pensiero. E qui non ci sono avversari da battere o compagni di squadra da aiutare. Sei solo, immerso in un piccolo universo di 43 quintilioni di possibilità (per la cronaca, un quintilione è 1 seguito da 30 zeri,ndr ).
Scusi, e questi 43 quintilioni non la fanno sentire almeno un po’ colpevole verso i ragazzi di allora?
«Ma proprio per nulla. Spero solo che trovare la strada giusta per risolvere il mio Cubo li abbia gratificati e ispirati».