il Giornale, 18 novembre 2023
«Scrittori finti ribelli e veri conformisti»
Sembra un paradosso. Mai c’è stato così poco impegno a fronte di un numero così alto di intellettuali: oggi basta un social, o un talk show, per dire la propria idea sul mondo. E allora forse – è una delle possibili conclusioni a cui è arrivato Filippo La Porta «Meglio un onesto disimpegno di un impegno inautentico». Per molto meno, un tempo, gli intellettuali veri – quelli engagés – lo avrebbero espulso dalla Repubblica delle Lettere. Oggi sono costretti a dargli ragione.
Letterato, critico che una volta si diceva «militante», 71 anni, romano della più bella Roma editorial-culturale, firma della miglior sinistra giornalistica – la Repubblica, l’Unità, Left Filippo La Porta è da lungo tempo che ragiona su ruolo, contraddizioni e sopravvivenza dell’intellettuale. Chiedendosi: c’è ancora spazio per un pensiero critico nei tempi caotici del conformismo mediatico? Esistono ancora uomini di cultura (sì, sì, per carità, anche donne) capaci di tracciare una rotta, «come sentinelle della verità»? Nell’era della correttezza morale e politica, l’impegno civile non rischia di diventare una posa, «una strategia di marketing»? Le risposte le ha consegnate al suo nuovo pamphlet, Splendori e miserie dell’impegno (Castelvecchi).
Lei gli intellettuali, attraverso i loro libri o di persona, li frequenta da parecchio. Come sono cambiati?
«Innanzitutto non sono più i tempi di Pasolini. Oddio non che abbai nostalgia dell’intellettuale come coscienza critica della nazione, però non esiste più l’intellettuale profetico, la guida morale. Siamo tornati l’idea aristotelica per cui ogni persona è un intellettuale, ognuno di noi ha la capacità di elaborare la propria esperienza, fare cultura, diffondere opinioni. Oggi il cosiddetto pensiero critico, anche grazie ai social, è diluito nei tanti Socrate dispersi nella folla».
Cos’è l’impegno?
«Una cosa troppo seria per lasciarla agli scrittori impegnati. Uno scrittore può sentire il proprio cuore vibrare per i migranti o per il disastro climatico, e va benissimo la passione civile. Ma ciò lo riguarda come cittadino, non specificamente come scrittore. Come scrittore ha il solo compito cioè l’impegno di scrivere bene. L’ha detto Flaubert: Se una cosa è scritta male è falsa».
Che vuol dire...
«Non che i sentimenti dello scrittore siano falsi. Ma che se una pagina è scadente dal punto di vista linguistico, approssimativa, incolore, quella pagina è falsa. E se lo scrittore non trova l’equivalente sul piano della scrittura delle sue passioni, anche fossero le migliori del mondo, significa che ha fallito. Heinrich Boll dice: Più un autore si crede impegnato, meglio dovrebbe scrivere».
Non basta che l’intellettuale dica la verità.
«Purtroppo no. Serve una scrittura che dica il vero con precisione e rigore. Una volta chiesero a Moravia se credesse in Dio. Lui rispose: Tutto ciò che ho scritto su Dio non è né originale né personale, quindi significa che non credo in Dio. Se uno non riesce a parlare di una causa nobile con una lingua originale e personale, forse a quella causa non crede molto».
Lei esamina varie tipologie di impegno.
«Manzoni ci propone un’idea di letteratura come impegno etico: se leggi La colonna infame sei orgoglioso che ci sia qualcuno che abbia combattuto l’intolleranza, il complottismo, i burocrati nel male. Matilde Serao nel Ventre di Napoli scrive sì una grande inchiesta sociale che documenta una realtà, ma anche un grande libro, realistico e visionario, degno di stare accanto a Grandi speranze di Dickens. D’Annunzio invece – un immenso comunicatore più che un poeta, un anticipatore di Andy Warhol – era il primo a cui non interessava nulla dei buoni sentimenti. A lui contrappongo Gramsci, un lettore straordinario che metto nella famiglia dei grandi saggisti del ’900. La triade neoilluminista Moravia, Sciascia, Calvino, resta un monumento della cultura laica e del pensiero critico del dopoguerra, anche se oggi tenderei a valorizzare Moravia, con un’intelligenza più fresca rispetto a Calvino e meno cavillosa rispetto a Sciascia. E poi c’è l’impegno scanzonato dei Flaiano e dei Savinio i quali non hanno mai firmato un manifesto ma hanno messo tutto il loro impegno dentro la scrittura: per loro la critica del mondo prende la via del gioco, dell’apologo, della satira. Il loro equivalente pop sono Gaber e Jannacci».
Lei denuncia il neo-impegno di oggi, qualcosa fra moda e marketing, un’autocertificazione di nobiltà morale, un modo per mettersi aprioristicamente dalla parte giusta.
«Lukács distingueva fra le idee che uno scrittore professa e quelle che vengono fuori dai suoi libri. Balzac era reazionario ma dalla Commedia umana esce un’ideologia rivoluzionaria. Bene. Oggi tanti scrittori che si dichiarano a sinistra scrivono libri che sono consolatori, rassicuranti, che ci confermano che loro sono dalla parte giusta... Invece la letteratura nega l’ovvietà, che interroga, che spiazza».
I grandi intellettuali impegnati italiani di questi anni sono Saviano e Murgia.
«Di Saviano ammiro le battaglie e rispetto la vita da recluso. Ma lui sottovaluta l’importanza dello stile, la qualità della scrittura, che non è un vacuo estetismo, ma è tutto. Sciascia rimane perché nei suoi libri oltre l’impegno civile c’è una scrittura altissima. L’affaire Moro è un vero saggio di filosofia morale, un pometto in prosa. E poi Saviano è disturbante solo con i propri nemici, coi camorristi e i narcotrafficanti. Pasolini invece era disturbante con tutti, anche con la propria parte. Non indossava una maschera che lo nobilitasse ma rispondeva solo a sé e ai propri sentimenti».
Murgia?
«Lei rimarrà più come intellettuale militante che come scrittrice. Anche il suo miglior romanzo, Accabadora, ha più un valore antropologico che letterario. Mi sono fatto l’idea che la vera lingua di tutti i grandi sardi sia il silenzio, e lei negli ultimi mesi di vita, pur con tutti i suoi interventi pubblici, abbia voluto proteggere quelle pochissime parole che ognuno di noi dice a se stesso di fronte al grande mistero della Morte. Nell’intervista a Aldo Cazzullo, quando gli chiede come vorrà essere ricordata, lei risponde spazientita: Ma ricordatemi come vi pare. Voleva custodire quello spazio che Nicola Chiaromonte – il mio vero eroe culturale, un critico della realtà libero dalla ideologie – chiama la dimensione dell’indicibile».
Uno scrittore-intellettuale che Le piace, oggi?
«Luca Doninelli: in lui c’è un impegno sia nella scrittura perché si prende cura delle parole, sia un impegno di tipo etico perché critica il conformismo delle idee dominati».
Lei sembra, a volte, preferire il disimpegno.
«Colui che io ritengo una delle massime voci poetiche del ’900, Carlo Bordini, ha composto una sola poesia brutta. Sui migranti. In questo senso meglio un onesto disimpegno di un impegno inautentico, recitato...».