il Giornale, 18 novembre 2023
Quell’alchimista di Pinocchio indeciso tra il Bene e il Male
Pinocchio è senza morale, senza vincoli religiosi, in lui è contenuto il diavolo e il paradiso, Pinocchio è l’oltre che nessuno oltrepassa mai. Pinocchio è privo di hybris, è spontaneità pura, pura immediatezza, il qui e ora è perfettamente sincronico in lui, anzi, non vi è separazione alcuna tra i due tempi, è un tempo unico, non testa, non corpo, non cuore, ma un perfetto unicum che va dove lo porta il vento del momento. In ambito musicale si potrebbe dire che Pinocchio è una nota che suona senza interruzione su uno spartito infinito.
Pinocchio non diventa un asinello, Pinocchio è un asino in sé, anzi, non è, che indica uno spostamento dell’essere da dentro di noi a un sé esteriore; Pinocchio ha dentro l’asino che diventerà: la sua manifestazione esteriore è solo l’attuarsi di ciò che lui ha dentro non tanto in essenza quanto come tappa da superare; è per questo motivo che si trasforma in asino e poi ritorna ciò che era in partenza, perché è passato da uno stato a un altro, uno dei molteplici stati del suo essere. Ha superato quel confine, quell’esile filo di cotone che separa tutti noi dall’essere dei mostri e ci fa rimanere delle persone normali, perché il destino raramente punta le sue speranze verso il bene, ma quasi sempre verso il male.
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Quello di Pinocchio è un paese infestato, diremmo oggi, da incubi a occhi aperti: il Gatto e la Volpe, volgari e mostruosi, l’Omino di Burro (il diavolo? Un neotraghettatore di anime, Caronte?); il Pesce-cane, nel ventre del quale volontariamente si tuffa, è il mostro che tutti noi fuggiamo, il nostro daimon quotidiano: Pinocchio lo investe, ci si butta dentro, lo affronta, tira fuori Geppetto intrappolato ormai da tempo nella quotidianità del dolore, della perdita. Pinocchio non ne entra perdente, non ne esce vincitore: attraversa questo ponte metafisico puro di spirito e di cuore, non è contaminato da ciò che ha fatto e non pensa minimamente a ciò che farà. In altri termini, non soffre l’attimo: per lui tutto è impermanenza senza la cognizione dell’essere lui stesso un disegno che si realizza a mano a mano che la storia procede. Come avviene quando muore e rinasce, quando diventa asino e ritorna burattino.
L’unico momento in cui questa metempsicosi termina è quando Pinocchio, divenuto bambino, si volta e guarda indietro al suo stato precedente. L’illuminazione al contrario: l’essere diventato bambino non è il punto di liberazione in terra di tutte le sofferenze, ma è l’inizio del diventare umano, pertanto, transeunte, è l’inizio della sofferenza.
Per questo Pinocchio, o meglio, Le avventure di Pinocchio, con la sua miriade di personaggi-animali, le sue metamorfosi e le sue rinascite, è un libro eterno e mondiale.
Quante manifestazioni (non anime, come si potrebbe pensare) sono contenute in Pinocchio? Muore e rinasce, si purifica nel fuoco e si trasforma in asino, tocca un punto estremo di umiliazione sostituendo addirittura non un cane qualsiasi, ma un cane terribile, colmo di una mentalità corrotta, quando viene incatenato dentro una cuccia; cerca la sublimazione e trasmutazione dell’oro attraverso la madre terra ma non come ricerca della salvezza attraverso la mitica pietra filosofale, ma a opera di due esseri malvagi, tentatori come il diavolo che promette l’abisso a Gesù nel deserto.
Pinocchio come tutti gli esseri umani è attratto dal male (anche se lui non ne è consapevole, al pari di Collodi che dipana la storia di capitolo in capitolo) o, dicendola diversamente, dal lato oscuro. L’uomo è tentato dal lato oscuro della vita: avere tutto in fretta e senza fatica, lasciare e dimenticare senza avere il minimo rimorso, vivere alla giornata non pensando a nulla. Pinocchio non è uno, nessuno, centomila: egli è non-duale. Per questo, alla fine della storia, Pinocchio diventa un bambino: perché l’abisso delle mille storie non lo regge più, il suo creatore Collodi è rimasto intrappolato dal suo creato e ne è diventato vittima, inghiottito, lui sì, nel ventre del Pesce-cane, perché ogni tentazione è stata compiuta, in ogni modo si è cercato di tirarlo nel male e farcelo restare, ma invano. Allora, il colpo di genio di Collodi, a dispetto di tutti i commentatori che sul finale si sono incartati con mille congetture strampalate, è di una semplicità sconcertante, a lui chiarissima perché non poteva uccidere la creatura che a sua volta lo aveva ricreato: siccome quel maledetto burattino le aveva scampate tutte ed è sempre sfuggito alle grinfie del male, ecco, lo fa diventare umano, un bambino, un essere come noi: in questo modo sarà preda di tutto ciò che è riuscito a scansare e rifuggire da burattino.