il Fatto Quotidiano, 19 novembre 2023
Intervista a Marco Bellocchio
L’ufficio di Marco Bellocchio è già un film. È vivo, vissuto cangiante, vario. Imprevedibile. Sembra Roma con la sua stratificazione secolare, con i suoi scorci nascosti, con il buco della serratura di piazza Cavalieri di Malta.
C’è il cinema, locandine sparse, poche le foto, copioni e sceneggiature un po’ ovunque; c’è l’arte figurativa con quadri e libri; c’è la politica, o la storia della politica del secolo scorso, della sinistra, con tanto di ceramiche cinesi, Mao trionfante, o bronzi sovietici.
Tutto ha un suo equilibrio, ha radici.
Dall’Ucraina a Gaza, la sinistra sembra non cantare più Generale di De Gregori.
C’è un discorso di difficile individuazione della sua identità; e poi è un esercito in ritirata: mi vengono in mente i film o i quadri su Napoleone e la campagna di Russia.
La sinistra come Napoleone?
Prima di diventare imperatore esprimeva idee rivoluzionarie; in realtà, io sono sempre stato un riformista, per un breve tempo un estremista pacifico, poi un ribelle ma non da piazza, non da corteo, però a quel tempo si cantava con slancio, con impeto, oggi non più.
Dov’è finito lo spirito di ribellione?
Ci sono film in grado di intercettare un sentimento, certe spinte un po’ sepolte e per questo mi ha colpito il successo di Nanni Moretti con Il sol dell’avvenire: lì quell’esercito disperso, e numeroso, si è ritrovato in certe parole d’ordine, in certe nostalgie, in un certo passato, in una certa illusione.
Davanti al Sacher c’è stato un pellegrinaggio.
In qualche modo è scattato quel meccanismo simile a una delle scene di Buongiorno, notte, quando Aldo Moro esce, passeggia libero e risponde alla tesi finale del film di Moretti, con quel corteo che simboleggia una vittoria che sarebbe arrivata senza certi errori.
Moretti salva Trotsky e butta via Stalin.
Trotsky non era uno che andava per il sottile; comunque per una parte della sinistra, quella più radicale, quella più vecchia e matura, c’è ancora l’idea che se fossero stati tutti uniti, da Togliatti in poi, questa utopia avrebbe rivoluzionato il Paese; pure parecchi giovani hanno apprezzato il messaggio del Il sol dell’avvenire.
Mancano i leader?
(Ci ripensa) Il principio della ribellione oggi si manifesta in diverse forme, pure con il film della Cortellesi C’è ancora domani; (pausa) è un film a tesi, non un film sovietico, ma con un obiettivo nobile si narra di una donna umiliata che a un certo punto si ribella e agisce contro il potere maschile; la sua forma popolare ha una capacità di penetrazione straordinaria.
Lo avrebbe immaginato?
Tendo ad andare al cinema nel pomeriggio, proprio come le persone anziane e per il film della Cortellesi ho trovato venti o trenta spettatori, ma il mio è stato un caso: il suo successo non si riscontrava da tempo; è come se lo spirito di ribellione cercasse altri canali, differenti strade e non più Bella ciao o Generale.
I giovani?
Utilizzano “armi” diverse e spesso sono rappresentati come portatori di catastrofe. Ma non può essere vero; (pausa) l’altro giorno ho firmato un appello per Gaza, nel quale si riconoscono ragioni o torti, non proprio un’equidistanza, ma un appello quasi disperato per cercare di risparmiare la vita di tanti innocenti.
Siamo a migliaia di vittime.
Ci sono appelli importanti, come quello del Papa, ma la soluzione si può trovare solo tra i due contendenti; noi siamo qui, non siamo come nella Guerra di Spagna, con le persone che partivano per combattere il fascismo e Franco. Qui dove vai? Nella storia si arriva quasi sempre allo scontro finale, quasi mai ci si ferma prima, quasi mai si cerca la coesistenza.
Al Papa si è dato del putiniano perché ha parlato della grande tradizione culturale russa.
Davvero? Incredibile; (pausa) la scorsa settimana sono stato a Berlino per presentare Rapito e lo stesso film è uscito due settimane fa in Francia; mi sono posto la domanda se un bambino europeo rapito nell’800 possa in qualche modo creare una connessione, un’associazione mentale del tutto casuale con l’oggi.
È successo?
(Sorride) È successo a me di “connettere”. Chi è più forte dovrebbe fare un passo indietro, mentre invece il più forte va avanti e “asfalta”; ripenso alla distruzione di Dresda o Norimberga quando, dicono gli storici, non era più necessario, come se Churchill e gli alleati volessero dare ai nazisti una lezione definitiva.
Buttare il sale.
Tacito sosteneva: “Hanno fatto il deserto e l’hanno chiamato pace”.
Il politically correct sta buttando il sale sulla commedia italiana?
Il film della Cortellesi, a livello di costume, di idee, proprio del rapporto uomo-donna, si inserisce con un tempismo miracoloso, non previsto, non “scorretto”, all’interno di questo filone per poi diventare un manifesto di una certa libertà con uno stile italiano.
Cosa si intende per stile italiano?
Uno stile che ha alla base una certa tolleranza; (pausa) a Gérard Depardieu, non so bene cosa abbia compiuto di tanto grave, è impedito di lavorare; su di lui ci sono molte rigidità da Rivoluzione francese, rigidità che non toccano l’Italia, dico la Francia patria di Liberté, egalité, fraternité.
Stessa storia per Woody Allen…
Anche in America ci sono.
Il film della Cortellesi l’ha più colpita o più stupita?
All’inizio, nei primi minuti, mi ha un po’ infastidito: sembrava un film troppo costruito, bene le inquadrature, ma con un registro caricaturale, “nobilmente caricaturale”, che non mi piace. Volevo andarmene. Poi sono rimasto fino alla fine e l’ho guardato con interesse quando naturalmente la protagonista si muove, reagisce, si ribella.
Ha creato dibattito, un po’ come è avvenuto nei decenni passati. Chiara Rapaccini, vedova Monicelli, racconta di serate di fuoco a casa di Laura Betti.
Quello era veramente un altro mondo, c’era il Partito comunista, c’erano i grandi maestri, c’erano gli intellettuali; per un breve periodo, seppure giovane, ho avuto l’onore di partecipare, venivo da Piacenza, avevo girato giusto un paio di film, e mi piaceva ascoltare.
Sempre la Rapaccini parla di una Betti provocatoria.
Era una grande cuoca, organizzava cene straordinarie, strabordanti, così il giorno dopo invitava i giovani che non potevano partecipare alla festa ufficiale; a me, tra tutti quei letterati, affascinava Alberto Moravia quando raccontava la Storia. Lui aveva conosciuto tutti i grandi come Pirandello, poi aveva vissuto il fascismo e la Resistenza.
Pasolini?
Era molto più riservato, aveva proprio due vite: una misteriosa, notturna; un’altra appunto più riservata, di poche parole, rispondeva senza voler scandalizzare alle domande, specialmente a quelle delle signore, incantate da lui; poi c’erano Enzo Siciliano, Dario Bellezza, Sandro Penna; Monicelli parlava poco, mentre Amidei ogni tanto si incazzava, era rissoso.
Nessuno scontro feroce.
No, ed era un cinema molto ammirato all’estero…
Un attore alla Volonté, così schierato, oggi c’è?
Qualcuno sì; lui grazie a una serie di clamorosi successi aveva acquisito un’identità di sinistra; non l’ho frequentato tanto, era particolarmente scostante, circondato dai suoi amici più stretti; era uno che rifiutava gli autografi, ma allo stesso tempo era un riferimento politico nonostante la più classica delle contraddizioni.
Quale?
Avere una barca eppure guardare al popolo; oggi per molti attori è un riferimento completo.
Lo ha diretto.
Una sola volta, entrato in corsa in un film sfortunato.
Sfortunato Sbatti il mostro in prima pagina?
Era stato iniziato da Sergio Donati, poi avvenne un contrasto insanabile, credo tra lo stesso Volonté e Donati. Allora mi chiamarono e io feci il grave errore di non telefonare, per una forma di fair play, a Donati; invece coinvolsi l’amico Fofi per politicizzarlo di più. È un film realizzato in fretta, col rischio di essere stati un po’ superficiali e schematici.
Nel film appare un La Russa giovanissimo.
Ripreso per caso a un comizio; abbiamo pure rischiato le botte; oltre a La Russa siamo andati al funerale di Feltrinelli, tutti con il pugno chiuso al cielo.
Da quanto tempo non porta il pugno al cielo?
(Sorride, resta zitto, si muove sulla sedia) Qualcuno mi ha detto che Berlinguer, da quando aveva assunto certi grandi incarichi nel Pci, si rifiutò di fare il pugno chiuso: per il Compromesso storico aveva capito che non poteva più andare avanti a contrapposizioni così dure; il pugno chiuso lo riteneva un simbolo divisivo; poi, sia Moro sia Berlinguer sono stati schiacciati dal loro progetto. E l’hanno pagata con la vita.
Sempre Berlinguer, poco più che cinquantenne, si augurava di invecchiare mantenendo intatti i suoi sogni da ragazzo. I suoi lo sono?
Forse si riferiva agli ideali politici; in un certo senso sì, forse in una forma più egoistica: mi ritrovo a 84 anni con una certa integrità con cui posso difendere bene il mio lavoro.
Nella vita privata?
Ho commesso errori, ma anche lì posso ritenermi soddisfatto; (ci ripensa) gli ideali politici mi hanno accompagnato per alcuni anni della mia vita, ma non credevo nella Rivoluzione, piuttosto in un’Italia più giusta e meno corrotta; (cambia tono) ancora voto a sinistra, se così si può dire. L’alternativa è di non votare.
L’ultimo suo leader?
Mi piacevano Pannella e gli ideali radicali, condividevo le loro battaglie.
Insomma, i sogni?
Restano privati e mi auguro ancora di sognare e di realizzarli, almeno in parte.
(Ps: il giorno dopo squilla il cellulare: “È morto Michel Ciment, grandissimo critico francese, l’unico al quale Kubrick concedeva interviste. Mi farebbe piacere ricordarlo…”).