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 2023  novembre 18 Sabato calendario

Orsi & Tori

Qualcuno ha dubbi che la terza guerra mondiale possa essere evitata solo da un accordo vero fra Stati Uniti e Cina?
Se nessuno ha dubbi, non si può non cercare di capire se nell’incontro di San Francisco nell’ambito dell’Apec (Asia-pacific economic cooperation) di pochi giorni fa, fra il presidente americano Joe Biden e quello cinese Xi Jinping siano stati posati davvero i primi mattoni autentici per la ricostruzione di un’intesa sostanziale fra i due maggiori concorrenti della terra.
Nei mesi scorsi la Cina aveva accusato gli Usa di voler contenere il suo sviluppo economico e circondare il territorio cinese con decine di basi militari in Sud Corea e Filippine, avendo contemporaneamente spinto alla pace tra loro il Giappone e la stessa Corea del Sud, da decenni nemici ma occupanti aree strategiche per contenere la Cina. Poi,
quasi come d’incanto, all’inizio di novembre il Partito comunista cinese ha cambiato non solo tono, ma ha ricordato l’eroismo dei piloti di caccia americani nella guerra contro il Giappone, che si concluse con il lancio delle due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. E la stampa del partito ha ricordato quando nel 1985 una coppia di americani ospitò l’attuale presidente Xi nell’Iowa.
Classico stile cinese, fatto, quando vogliono, di garbo unico e gentilezza. Certo il miglior viatico perché l’incontro di San Francisco partisse nel clima più cordiale.
In realtà, ancor prima l’America aveva mandato in Cina la più convinta sostenitrice della necessità di rapporti civili se non cordiali per un’economia mondiale positiva. È stata infatti Janet Yellen, oggi segretaria al tesoro e in passato presidente della Federal reserve, ad andare pochi mesi fa a Pechino usando parole che invitavano alla collaborazione e soprattutto con una così esplicita dichiarazione come la seguente: se Usa e Cina non collaborano, l’economia di tutto il mondo entrerà in grave crisi. Poi è stata la volta, a giugno, del segretario di stato per gli affari esteri Antony Blinken ad atterrare a Pechino per discutere con il suo pari grado sulle relazioni Cina-Usa. Erano cinque anni che un segretario di stato agli affari esteri americano non andava in Cina. Prima e poi ci sono stati i ministri cinesi che sono andati a Washington e soprattutto è stato il nuovo ambasciatore cinese a Washington, Xie Feng, che come primo atto a metà di quest’anno è andato a rendere omaggio all’americano che aprì le relazioni con la Cina, creando la diplomazia del ping pong, il grande (e centenario) Henry Kissinger. Il quale andò subito al dunque su quello che era allora il tema più caldo, come lo è tuttora: Taiwan. Con queste parole: il presidente Mao disse che per 100 anni il nome Taiwan non doveva essere pronunciato da nessuna delle due parti, visto che nell’isola gli americani avevano fatto in modo che si rifugiasse il nazionalista Chiang Kai-shek, sconfitto nella guerra intestina dall’esercito di Mao. E Kissinger aggiunse: Da quando Mao parlò così sono passati molti decenni, ma per arrivare a 100 ne mancano ancora. Mentre la ex-portavoce della camera, la democratica Nancy Pelosi, era andata poco prima a Taiwan facendo scattare immediatamente le reazioni cinesi con voli sull’isola e navi che incrociavano le coste a poca distanza. Capendo che la situazione poteva precipitare, Kissinger, ad onta dei suoi 100 anni e di nessun incarico politico, è salito sull’aereo per atterrare a Pechino. È stato l’inizio del cambiamento.
Biden e Xi si sono incontrati per quattro ore in una casa di campagna di San Francisco. Il risultato, occorre dirlo, è stato sostanzialmente buono:
1) sono stati ripristinati i contatti diretti fra le due forze armate;
2) la Cina si è impegnata a fare ogni sforzo per limitare (eliminarle è impossibile) le forniture di sostanze chimiche con cui viene prodotto il fentanyl, la micidiale droga che ha già causato 100 mila morti per overdose fra i giovani cinesi e 200 mila decessi negli ultimi tre anni in Usa.
È poco? Non è molto, ma testimonia la volontà di collaborare alla vigilia delle elezioni a Taiwan e poi di quelle americane. Con un momento, quello attuale, in cui esiste un completo disallineamento delle economie. Mentre Biden può vantare una forte ripresa economica, la Cina ha segnato un rallentamento nel terzo trimestre del pil.
Nonostante questo vantaggio americano, gli Usa hanno poca capacità di catturare il consenso di vari paesi asiatici, avendo anche abbandonato i piani per presentare ai paesi asiatici il progetto sul commercio digitale nel quadro economico indo-pacifico (Ipef) lanciato senza grande successo addirittura da Barack Obama nel 2016, che fu subito abbandonato dal neoeletto successivo, Donald Trump.
Sembra quasi che Biden, alla ricerca di un nuovo rapporto quantomeno ordinario con la Cina, nonostante i successi economici recenti tenda a rispettare il primato in Asia della Cina. Un modo, insomma, perché non si riaccenda lo scontro sull’economia, ben consapevole del fatto che la Cina sta attraversando un inizio di recessione, più che inevitabile dopo la lunghissima chiusura del paese per il Covid.
Ma c’è stato qualcosa di più, quasi come viatico per l’incontro. Il dipartimento di stato (cioè, il ministero degli esteri) ha fatto sapere che, essendo Usa e Cina i maggiori produttori di gas serra, hanno concordato di continuare gli sforzi perché al 2030 sia triplicata la capacità di produrre energia rinnovabile per il mondo.
E le guerre in atto? Non potevano, i due leader, far finta di niente. A prendere l’iniziativa è stato Biden che ha chiesto alla Cina di contribuire a frenare la guerra della Russia in Ucraina e a spingere l’Iran a interrompere l’aiuto ad Hamas.
Non si sa quanta breccia abbiano fatto nel presidente Xi Jinping queste richieste di Biden, ma un risultato è stato raggiunto soprattutto per Biden. Ha mostrato al nemico Vladimir Putin di essere in grado, da suo grande nemico, di poter discutere di lui con quello che il dittatore russo ritiene il suo miglior amico.
Mentre le due guerre infuriano, da San Francisco arriva almeno un alito di speranza, che le due più grandi potenze hanno deciso di parlarsi. E certamente non per peggiorare i loro rapporti e quelli del resto del mondo. Un partecipante al vertice ha rivelato che Xi ha ringraziato Biden per la posizione critica che ha assunto verso il capo del governo israeliano, Benjamin Netanyahu. Non a caso Wall Street ha immediatamente reagito con un forte rialzo.
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La nomina di Lina Khan a presidente dell’antitrust americano (Ftc, Commissione federale per il commercio) sta dando frutti importanti. Appena trentatreenne, docente di economia all’università di Rochester, la Khan ha scritto libri importanti sugli abusi degli Ott; e infatti Facebook e altri fecero ogni tentativo giudiziario per bloccarne la nomina. Nei giorni scorsi la Commissione ha svelato l’accordo segreto fra Google e Apple che fa capire come l’economia del mondo sia condizionata dal potere assoluto che gli Ott hanno conquistato. In pratica, affinché Google diventasse l’opzione di default, cioè spontanea, sui telefoni di Apple, la stessa Google versava alla società fondata da Steve Jobs, che sicuramente dal paradiso non gradirà questo imbroglio, ben il 36% dei ricavi pubblicitari realizzati dal motore di ricerca. A rivelarlo è stato colui che doveva essere il testimone in difesa di Google, portato in tribunale dalla Khan. Si chiama Kevin Murphy, professore di economia. Era stato citato per supportare la posizione di Google. Il reato scoperto dall’Antitrust è appunto il fatto che chiunque abbia acquistato un Apple e voglia effettuare una ricerca, inevitabilmente viene ad usare il motore di Google, che così ha gonfiato a dismisura la sua pubblicità, ma nello stesso tempo Apple, che nel ricordo di Steve Jobs non avrebbe mai dovuto prestarsi a questo raggiro degli acquirenti di iPhone, trovandosi automaticamente su Google, senza esserne in partenza consapevoli. La combine è stata sicuramente una concausa fondamentale del dominio nelle ricerche di Google, facendo concludere, anche inconsapevolmente, agli utenti che appunto Google sia il miglior motore di ricerca. E non per caso alcuni giorni prima di quando è avvenuta la confessione da parte del testimone indicato da Google, con perfetta correttezza informativa, il più importante giornale del mondo, il New York Times, aveva fatto sapere urbi et orbi che nel 2021 Google aveva retrocesso ad Apple ben 18 miliardi di dollari, frutto del meccanismo digitale descritto.
È convinzione in Ftc che il raggiro di Google ampiamente retribuito ad Apple, come ha dimostrato il NYT, non sia che la punta dell’iceberg delle violazione della legge antitrust, che deve tutelare non solo gli utenti ma tutto il sistema dell’innovazione tecnologica.
Come ha riconosciuto, facendo ammenda, l’ex-presidente Barack Obama in un suo intervento pronunciato all’Università di Stanford, il governo americano ha negli anni dato troppi soldi, troppa libertà e troppo appoggio alla Silicon Valley. Al punto, come ha confessato Obama e come i lettori di Orsi&Tori hanno già potuto leggere, di concedere agli Ott un potere perfino superiore a quello dell’amministrazione americana.
La determinazione della presidente Khan e la consapevolezza che le decisioni per il futuro del mondo non possono essere determinate dagli Ott, che pure hanno dato e danno servizi importanti ai cittadini, porterà inevitabilmente ad altre clamorose scoperte. Il governo americano è partito tardi a contrastare gli abusi, ma ora sta marciando forte, c’è da augurarsi che Bruxelles, dove pure la reazione è cominciata prima che in Usa, oltre a fare leggi le faccia anche applicare a tutela dei cittadini e della democrazia. Il terreno è sterminato, dalla tutela dei minorenni, alla diffusione di notizie false, ad alterazione degli equilibri democratici… E ora è partita la AI. Nessuno desidera fermare il progresso, ma il progresso deve essere utile a migliorare la vita dei cittadini, a far crescere l’economia, non a manipolare la realtà.
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Che il professor Paolo Savona, presidente della Consob, sia una delle menti più lucide del paese non lo si scopre adesso. Lo aveva scoperto tanti anni fa il grande Guido Carli, che gli affidò l’ufficio studi della Banca d’Italia e poi, una volta abbandonata via Nazionale, quando divenne presidente della Confindustria lo chiamò al suo fianco come direttore generale. E se ci fosse bisogno di conferma, basta leggere le dichiarazioni del professore, orgoglioso della sua origine sarda, rilasciate sul tema del ddl per lo sviluppo della borsa in occasione della lectio alla Camera dedicata a Ugo La Malfa: «Il percorso che il ddl ha avuto in parlamento rischia di aver snaturato gli intenti del provvedimento stesso, che era appunto quello di sviluppare l’asfittico mercato italiano. I provvedimenti adottati non sono esattamente coerenti con gli obbiettivi dello sviluppo che stiamo perseguendo». Con il suo stile raffinato ha prima usato la dizione «non sono esattamente coerenti» e poi: «all’interno del testo sono arrivate altre istanze rispetto a quella principale di portare più risparmio