La Lettura, 19 novembre 2023
Nola Rae, grande mimo
Ha resuscitato la Regina Elisabetta I, traslocandone l’aura regale in uno sgualcito salotto piccolo-borghese, tra divani a scacchi rigorosamente British. Ha virato al femminile Mozart, distratto nella composizione delle sue partiture dal pianto di un neonato e dalle ambasce domestiche della casalinga disperata. Ha trasferito l’ego debordante di Napoleone sotto la tenda lacerata di una guarnigione di perdenti. Sempre muta. Perché l’estro iconoclasta di Nola Rae, nata a Sydney nel 1949 ma inglese fino al midollo, è sempre stato delicato e, soprattutto, silenzioso.
La grande mima è l’ospite di punta del Finc, il Festival internazionale di Nuovo Clown curato da Theatre Degart, la cui seconda edizione si terrà al Palazzo Congressi di Taormina e al Parco Archeologico di Naxos, in provincia di Messina, dal 1° al 10 dicembre: dedicata al tema dell’autoironia e alla figura del clown donna, vedrà alternarsi 13 spettacoli internazionali, laboratori e incontri con artisti di nove Paesi. Tra gestualità, clownerie e marionette, il teatro muto di Nola Rae – emigrata a Londra dall’Australia nel 1963 con la famiglia e insignita nel 2008 del «più alto ordine dell’Impero Britannico» dalla regina Elisabetta II – affonda le proprie radici sottili nel balletto classico.
È vero che sognava di diventare una ballerina?
«Sì, ho cominciato a studiare danza classica alla Royal Ballet School e ho poi ballato al Malmö Stadsteater, in Svezia, e al Pantomimeteatret dei giardini di Tivoli a Copenaghen, in Danimarca. Quando capii che non sarei diventata una grande ballerina, avendo assistito a uno spettacolo di Marcel Marceau, gli chiesi di poter studiare con lui a Parigi. Mai avrei immaginato di diventare una mima. Da Marceau imparai la tecnica di quest’arte: pensare da mimo è un’attitudine alla scena molto diversa da quella di un ballerino. I miei soldi, però, finirono prima della fine del corso e dovetti lasciare Parigi, tornai a Londra e mi unii a una compagnia che lavorava in Francia, l’International Research Troupe Kiss con cui cominciai a recitare da attrice e a usare correttamente la voce. Di ritorno a Londra, incontrai Jango Edwards con cui fondai la compagnia Friends Roadshow, basata su mimo e clownerie e, dopo tre anni, nel 1974, mi misi in proprio creando una mia compagnia, il London Mime Theatre con il mio partner Matthew Ridout, facendo gli stessi numeri ma con nostri materiali. Fu allora che divenni solista: avevo sufficiente repertorio dopo sette anni di lavoro e, nel 1976, presentai il mio “solo” al Festival di Nancy. Ho visitato anche Taormina di cui ho ricordi meravigliosi».
Lei è australiana di nascita, ma britannica di nazionalità e profondamente innamorata delle opere di Shakespeare...
«Se sei inglese e lavori in teatro, Shakespeare è cruciale anche se sei un mimo. L’ho portato in scena senza le sue parole che, però, hanno giocato una grande influenza sul mio lavoro: ho tradotto le sue storie e i suoi personaggi nel linguaggio del mimo, della clownerie e delle marionette. Ho interpretato a modo mio Romeo e Giulietta, il Macbeth, il Re Lear, il Sogno di una notte di mezz’estate, una versione di Amleto per sole due mani. Al festival Shakespeare, creai con John Mowat lo show Shakespeare Works dove non c’era una parola di Shakespeare: fu un tale successo da doverlo replicare subito perché il pubblico voleva rivederlo».
Su quale aspetto della figura di Elisabetta I ha focalizzato la sua attenzione?
«Ho preferito giocare sugli aspetti della sua icona che più funzionavano con l’approccio visivo dell’arte del mimo e del clown. Il regista mi aveva detto: “Devi diventare Elisabetta I a modo tuo”. L’ho fatto: in ogni donna c’è un’Elisabetta I che vorrebbe venire fuori. La mia assomigliava molto a mia nonna, che naturalmente non era regina. La mente funziona in modo strano, affronta gli argomenti da angolazioni curiose».
Mai stata tentata d’interpretare Elisabetta II?
«No, era troppo vicina a me ed era vivente. Meglio portare in scena personaggi del passato. Elisabetta II è mancata l’anno scorso ma il suo segno è ancora vivo nella storia di oggi. Mi capitò di incontrarla in occasione dell’onorificenza che mi assegnò nel 2006, le strinsi la mano. Ho incontrato e stretto la mano anche a Carlo prima che diventasse re: venne a vedere un mio spettacolo nell’Inghilterra orientale. Sono una mima che ha stretto la mano a due monarchi».
Si è ispirata anche a Chaplin…
«Fu in occasione di un mio show politico, Exit Napoleon Pursued by Rabbits (“Esca Napoleone inseguito dai conigli”) in cui mi ispirai al Grande dittatore: è uno dei miei film preferiti di Charlie Chaplin: per quanto, era strano sentire la sua voce. Una delle prime pellicole riuscite dopo il cinema muto».
Per la tv inglese ha interpretato anche una ballerina francese che impersonava Anna Pavlova: qual è la stata la sua ballerina preferita?
«Assolutamente Margot Fonteyn, l’ho anche incontrata. È stata di grande ispirazione per il mio teatro, così come lo fu Marcel Marceau».
Com’era Marceau come uomo? Qual è la sua eredità?
«Era gentilissimo, umano, direi quasi equanime. Soppesava le parole, era estremamente diplomatico e caldo con gli studenti che lo adoravano. È stato l’artista che ha reso celebre nel mondo l’arte del mimo e ci ha lasciato una straordinaria eredità».
Citava prima Jango Edwards, clown esuberante e molto amato in Italia, morto lo scorso agosto. Com’è stato lavorare con lui?
«È stata un’ottima partnership perché eravamo così diversi e contrastanti l’uno dall’altra: lui era incontenibile e rumoroso, io più delicata, quindi ci completavamo. Poteva essere travolgente, ma ho lavorato molto bene con lui».
È stata una sfida difficile eccellere in un mondo dominato da uomini?
«Direi di no, proprio grazie alla formazione di ballerina, che è stata una sorta di superiorità, una qualità speciale e rara».
Qual è il destino della pantomima?
«Oscilla su e giù, seguendo cicli: quando si avverte la saturazione delle parole si sente la necessità di tornare al mimo. Il popolare London International Mime Festival ha appena chiuso i battenti dopo 47 anni di storia gloriosa. Il mimo è una parte molto forte del teatro fisico, entra ed esce da altri generi, allargando il modo di pensare. Anche se oggi è difficile da imparare, perché ci sono pochi insegnanti all’altezza».