La Lettura, 19 novembre 2023
L’ultimo film di Antonioni
«Enrica afferma che, fra tutte le sceneggiature che suo marito ha scritto, Tecnicamente dolce era quella cui teneva di più», racconta il regista italo-brasiliano André Ristum: sarà lui, con il beneplacito della vedova di Michelangelo Antonioni, che del progetto è produttrice associata, a dirigere il copione firmato dal maestro nel 1967: un’eredità spirituale lasciata a Ristum dal padre Jirges, morto di leucemia a 42 anni, che era stato assistente di Antonioni sul set di Il mistero di Oberwald e avrebbe voluto debuttare alla regia con quella storia. Oggi il sogno è in procinto di avversarsi grazie ad André, che vive in Brasile dal 1996 dopo avere trascorso gli anni fra i 16 e i 25 in Italia. «Mia madre era romana ma è cresciuta in Brasile, e lì ha sposato mio padre. Dopo il golpe del ’64 si sono trasferiti prima a Londra, dove sono nato io, poi a Roma. A vent’anni ho iniziato nel cinema come assistente di produzione, e nel ’95 ho lavorato con Bertolucci sul set di Io ballo da sola: mio padre era stato suo aiuto per La luna, dove io avevo fatto la comparsa».
Aveva visitato anche il set di «Il mistero di Oberwald»?
«Sì, a sette anni, e Antonioni mi era sembrato altissimo: ricordo il suo sguardo penetrante, e quella tranquillità silenziosa che si riflette nel suo cinema».
Perché non ha girato lui «Teneramente dolce»?
«Ci ha provato per dieci anni! Aveva un contratto per realizzare tre film con Carlo Ponti: il primo fu Blow Up, poi Antonioni propose a Ponti la sceneggiatura di Tecnicamente dolce e lui rispose: “Giriamo intanto il film americano”, cioè Zabriskie Point. Finalmente Ponti disse: “Ok, tocca a Tecnicamente dolce”. Insieme fecero tanti viaggi per trovare le location, ma Ponti concluse che era “tecnicamente troppo difficile”, e il loro terzo film divenne Professione reporter».
Che significa «tecnicamente dolce»?
«È la definizione che Oppenheimer diede della bomba atomica, ma non si collega a niente di specifico nel film, se non al fatto che il protagonista è un giornalista appassionato di armi, che dopo una crisi esistenziale va in Sardegna e conosce una coppia di giovani: il ragazzo lo sfida ad intraprendere con lui un viaggio in Amazzonia, e la storia va avanti e indietro fra la Sardegna e il Brasile».
Quali temi tratta, tipici del cinema di Antonioni?
«Il rapporto con il pianeta, in cui l’uomo può distruggere la natura, ma può anche soccomberle. E l’idea della fuga di un uomo che va incontro alla morte. Sono anche i temi di Professione reporter, scritto più o meno nello stesso periodo. Antonioni avrebbe voluto Jack Nicholson e Maria Schneider come protagonisti di Tecnicamente dolce e, quando il progetto sfumò, essendo i due già sotto contratto con Ponti, sono diventati il cast di Professione reporter. Io e i produttori (l’italiana Vivo Film e la brasiliana Gullane, ndr) vogliamo invece due attori italiani e una brasiliana nei panni del protagonista e della coppia del film».
Enrica Antonioni fu avvicinata da altri per i diritti della sceneggiatura?
«Quando l’ho contattata aveva già un paio di proposte sul tavolo, sono andato a trovarla a Trevi e dopo una giornata insieme ha detto: “Oggi ho sentito che questo film finalmente si farà”. Recentemente è venuta in Brasile per l’omaggio che il Festival di San Paolo ha dedicato ad Antonioni e abbiamo fatto una lettura della sceneggiatura. Alla domanda sulla responsabilità di affrontare questo testo ha risposto: “André è tranquillo perché da lassù Michelangelo e suo padre stanno decidendo tutto loro”».
Davvero si sente tranquillo?
«Se mi fermo a pensarci mi vengono i brividi, ma sento questa storia molto intima, e so che devo fare un film mio: è inutile che provi a realizzare il film di Antonioni, perché quello lo avrebbe potuto fare solo lui».
Ha appena partecipato al festival di Tallinn con «Nobody Leaves Alive», il suo film ambientato nel manicomio brasiliano di Colonia, che ricorda «Vincere» di Marco Bellocchio: un altro maestro con cui ha lavorato.
«Sì, ero produttore delegato per la parte brasiliana di Il traditore, e Vincere è uno dei film che hanno ispirato Nobody Leaves Alive. Volevo raccontare un posto dove bastava un certificato medico per far rinchiudere le persone di cui ci si voleva liberare: un deposito degli indesiderati della società, compresi gli oppositori della dittatura. Le storie trattate sono vere, tratte dal saggio Brazilian Holocaust di Daniela Arbex».
Perché ha ambientato «Nobody Leaves Alive» negli anni Settanta?
«Perché ricordavo la campagna fatta in Italia in quel periodo a favore della legge Basaglia, che visitò Colonia e lo descrisse come “un campo di concentramento nazista”. Basaglia avrebbe poi fatto parte del movimento che nell’84 ha consentito di aprire quei manicomi».